[12/09/2007] Comunicati

Pecoraro: «Italia tra i paesi più esposti ai danni dei cambiamenti climatici»

ROMA. Noi siamo, assieme a Spagna, Portogallo e Grecia, i più esposti ai danni dei cambiamenti climatici. Noi abbiamo la maggiore convenienza, tra i paesi industrializzati, ad agire subito.
Riportando all’Italia le stime del rapporto Stern sull’inazione si evince che nell’ipotesi ormai ampiamente superata che la temperatura globale cresca solo di 1,5 gradi, nel nostro paese, i costi per far fronte ai danni prodotti dai cambiamenti climatici sono 50 miliardi di euro all’anno. Nella situazione più catastrofica prevista a livello globale dal rapporto (crescita di 6 gradi di temperatura), i costi salirebbero in maniera esponenziale.
Per mettere in campo le azioni che cui permettono di tagliare le nostre emissioni di gas serra, ci servono da 3 a 5 miliardi l’anno.
Predisporre le misure di adattamento costa da 1 miliardo e mezzo a 2 miliardi di euro l’anno.
La differenza tra quello che ci costa non agire e quello che ci costa agire è tra 10 e 40 volte maggiore a favore dell’azione: da 5 a 7 miliardi contro un costo minimo dell’inazione di 50 miliardi. E prima si fa meno ci costa.

MITIGAZIONE E ADATTAMENTO SONO POLITICHE DA INTEGRARE
La strategia di mitigazione dei cambiamenti climatici, che agisce sulle cause dei cambiamenti del clima, ha l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra provenienti dalle attività umane per eliminarne l’accumulo in atmosfera, accumulo che, per le caratteristiche che hanno questi gas di trattenere il calore, determina una variazione del clima.
La mitigazione si può fare a livello globale, con patti e politiche internazionali, perché l’atmosfera è di tutti, non conosce frontiere e così non ne conoscono i fenomeni che si innescano con la crescita delle temperature. La mitigazione si fa a livello nazionale rispettando gli impegni presi e facendo in modo che se ne assumano ulteriori.
La strategia di adattamento, che agisce sugli effetti dei cambiamenti del clima, ha l’obiettivo di minimizzare le conseguenze negative e di prevenire i danni riducendo la vulnerabilità territoriale e quella socio economica ai cambiamenti del clima, e sfruttando, ove possibile, nuove opportunità di sviluppo socio economico che dovessero sorgere con i cambiamenti climatici: un’ipotesi, come abbiamo visto, molto più probabile nel nord dell’Europa che non da noi. L’adattamento è un insieme di politiche e di scelte su scala nazionale e locale. Senza trascurare l’impegno internazionale, la politica globale, e fornendo ai paesi meno ricchi le risorse per adattarsi a loro volta a un cambiamento climatico di cui rischiano di essere le prime vittime.
Saranno i governi e le amministrazioni locali a gestire le regole e i fondi per costruire infrastrutture a prova di clima che cambia e soprattutto a ripensare al modo di fare gli interventi.
L’idea di fondo è: meno cemento e più sostegno alla capacità naturale di difesa degli ambienti sani. Una costa cementificata in maniera selvaggia non è un ambiente sano, lo è una duna costiera, e anche un ambiente costruito in maniera naturale, light.
La parola d’ordine per l’adattamento è: interventi, naturali. light. In una parola, adattamento sostenibile

MITIGAZIONE SENZA SE E SENZA MA
La prima cosa da fare è ridurre le emissioni, non ci sono scappatoie. È una politica globale, ma ognuno deve fare la sua parte. Occorre riportare in equilibrio il sistema climatico tra emissioni globali e assorbimenti globali, per evitare che il clima impazzisca. Oggi, solo in termini di anidride carbonica, il più comune dei gas serra, vengono emessi a livello mondiale tra 26 e 28 miliardi di tonnellate l’anno.
Con il trend attuale nel 2050 ci saranno 90 miliardi di tonnellate di anidride carbonica in giro per l’atmosfera.
Le emissioni mondiali continuano a crescere e nello stesso tempo aumenta l’urgenza di tagliare le emissioni.
Il pianeta, con le foreste e gli oceani, è in grado di assorbire oggi solo 12 miliardi di tonnellate di CO2, il 40%. In futuro le capacità di assorbimento diminuiranno, perché più aumenta il riscaldamento più i sistemi naturali che catturano l’anidride carbonica si indeboliscono.
Nel Mediterraneo, lo scorso inverno l’assorbimento della CO2 è sceso del 30% perché la temperatura del mare era di 2 gradi sopra la media.
E’ urgente tagliare le emissioni. Il processo ci potrebbe sfuggire di mano, diventare incontrollabile.

EMISSIONI, IL CAMMINO CHE RESTA DA FARE
L’Italia ha accumulato 10 anni di ritardo. Per colmare questo gap non basta la prima inversione di tendenza nelle emissioni dei gas serra che secondo le stime preventive dell’APAT c’è stata nel 2006: si tratta dell’1,5% in meno rispetto al 2005, in buona parte dovuta all’inverno caldo e all’estate mite dello scorso anno. E’ stato un segnale importante, ma occorre un impegno massiccio. Nei 10 anni che ci separano dalla firma del protocollo di Kyoto, l’Italia invece di ridurre come era nei patti le emissioni di gas serra del 6,5% rispetto al 1990, le ha aumentate del 12,1%.
Non siamo in regola con il piano nazionale di allocazione dei permessi di emissione: ritardi, reticenze, scelte miopi anche da parte del sistema industriale. Tutto questo non conviene da nessun punto di vista, né da quello politico, né per quanto riguarda il nostro peso internazionale, né per il sistema economico.

L’ITALIA VERSO BALI
Sulle emissioni la posizione dell’Unione Europea è la più avanzata, e allo stesso tempo è la più realista. La riduzione del 20% delle emissioni al 2020 e del 60% entro il 2050 è un obiettivo di buon senso. Limita il riscaldamento del pianeta a 2 gradi, un limite ultimo perché le conseguenze – sebbene siano comunque gravi – rimangano prevedibili, controllabili attraverso piani di adattamento e non irreversibili. A non essere di buon senso quelli che vogliono continuare a fare come se niente fosse in termini di produzioni inquinanti, di auto, di stile di vita. come se poi pagasse qualcun altro. Non è così, stiamo pagando da ora in termini di abitabilità del pianeta, di vite umane, di soldi.
Andremo a Bali, alla tredicesima conferenza delle parti che hanno firmato la Convenzione sui cambiamenti climatici, a sostenere con forza la posizione dell’Unione europea che si è impegnata già da subito a ridurre le emissioni di gas serra del 20% e che si sta preparando (a partire dalla riunione Vienna) con gli scenari di fattibilità economica alla mano a lanciare riduzioni più drastiche, fino al 40% entro il 2020.
Andremo a Bali a negoziare il prossimo patto, Kyoto 2, non solo per quanto riguarda i tagli di emissioni da fare, ma anche le regole per farli. Chi (quali paesi, quali settori) deve avere limiti di emissioni; chi deve essere aiutato di più, concedendo tempie e margine; come aggiustare e ampliare il meccanismo del “trade”, magari spostando il tiro dagli interventi che valutano e attribuiscono un prezzo alle emissioni per passare a interventi specifici sull’uso dell’energia fossile, con la conseguente possibilità di cambio/commercializzazione di ogni azione di risparmio della CO2 (in maniera da coinvolgere una platea la più ampia possibile), con meccanismi premianti e penalizzanti.

L’ADATTAMENTO SOSTENIBILE E’ COME LA LOTTA BIOLOGICA
La verità è che all’Italia agire per l’adattamento significa mettere in sicurezza in primo luogo i nostri guai storici: il rischio idrogeologico, la difesa delle coste, lo spreco delle risorse idriche. Si tratta di politiche e di azioni che sono o dovrebbero già essere in corso: gli ostacoli vengono anche dai meccanismo di blocco non selettivo degli investimenti ambientali decisi nella scorsa legislatura.
C’è un paradosso tutto italiano: a differenza di molto paesi europei dobbiamo fare la maggior parte delle politiche della messa in sicurezza del territorio. Dobbiamo farle ora, tenendo conto dei limiti più alti posti dalle azioni di adattamento. Possiamo e dobbiamo utilizzare l’adattamento per realizzare la messa in sicurezza del territorio di cui da anni si parla.
Ma c’è di più: l’unico adattamento che funziona è quello sostenibile. La lotta biologica al cambiamento climatico, cioè il restauro ecologico, non l’artiglieria pesante. Alt alle inutili cattedrali di cemento, alle devastanti dighe faraoniche, alle enormi massicciate che contengono i versanti franosi. Via libera a interventi strutturali sostenibili, a tecniche dolci come quelle dell’ingegneria naturalistica. Si potrebbero fare netti risparmi sui fondi per la difesa del suolo: dagli oltre 40 miliardi di euro che oggi si ritengono necessari per mettere in sicurezza il suolo, la vita e i beni degli italiani, si passerebbe a una spesa ben più bassa, dell’ordine di 8 miliardi di euro. Un risparmio che fa bene all’ambiente, risulta anche più efficace ma soprattutto consente un numero enormemente maggiore di interventi.
L’esempio migliore è quello dell’Arno. Nel bacino fluviale erano previste opere strutturali per 1 miliardo e 600 milioni di euro. La nuova programmazione leggera ha ridotto questa cifra a 200 milioni di euro, l’80% in meno. La Regione Toscana e il ministero dell’Ambiente hanno adottato questa nuova programmazione e la messa in sicurezza si farà muovendosi attorno a questa filosofia e a questi investimenti.
Il punto è che i soldi necessari ci devono essere, e ci devono essere da ora. Devono essere finalizzati a vere azioni di messa in sicurezza del territorio e non ad azioni che danneggiano il territorio.
Spero che alla fine della Conferenza nazionale ci sarà un “manifesto per il clima, una strategia per l’adattamento sostenibile e la sicurezza ambientale”, un impegno che vorrei fosse sottoscritto dal governo.

* Alfonso Pecoraro Scanio è il ministro dell´Ambiente

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