[26/09/2007] Consumo

La Cina è vicina (all’Africa)

LIVORNO. Il gigante economico cinese fa paura, fanno paura i suoi tassi di crescita, il suo inquinamento, l’espandersi inarrestabile delle sue merci a basso costo, il suo assorbire come una spugna le multinazionali occidentali fornendo spazi e manodopera a basso costo, anche ambientale e sociale. Fa paura ai suoi vicini che vedono risorgere un Celeste impero tinto dal rosso di un regime comunista sempre più nazionalista e sempre più dotato di armi sofisticate (spesso generosamente fornite dagli stessi che poi mettono in guardia contro il pericolo cinese), capace di mettere in piedi un embrione di guerra spaziale. Eppure la Cina, al di là delle teste di ponte delle comunità cinesi in Asia ed in occidente e della questione di Taiwan, ha a livello internazionale un atteggiamento così prudente da sembrare difensivo, sembra rinchiusa nel fortilizio della sua vertiginosa crescita economica, con un’unica eccezione: l’Africa.

Il più povero dei continenti sembra essere stato scelto dai cinesi come il campo di espansione della loro egemonia economica e non solo vecchi alleati come la Tanzania o ex pesi a socialismo reale come il Mozambico, l’Angola o l’Etiopia. La Cina colleziona accordi economici e politici in tutto il continente, soprattutto nell’Africa che una volta si chiamava nera, quella subsahariana. Entra in mercati che agli occhi occidentali sembrano poverissimi, come quelli della fascia arida del Sahel, sfonda in Paesi che si pensavano definitivamente consegnati all’egemonia di Francia e Gran Bretagna che nell’ottocento si erano spartite quasi tutto il continente lasciando qualche enclave a portoghesi spagnoli, italiani e tedeschi ed un unico Stato indipendente, l’Etiopia cristiana che poi Mussolini pensò bene di conquistare in una sanguinosa guerra con uso di armi chimiche e bombardamenti di capanne.

Qualcuno parla di una nuova forma di colonialismo con gli occhi a mandorla, ben diversa da quello giapponese che strisciò sanguinoso sulla punta delle baionette per l’Asia fino a fermarsi ad Hiroshima e Nagasaki, ma anche dal colonialismo interno cinese nelle cosiddette regioni autonome, a cominciare dal Tibet e dallo Xinjiang, il Turkestan cinese.

Diversamente dagli ex padroni occidentali, la Cina in Africa si presenta con la faccia del partner alla pari, di chi non ha alle spalle una storia di rapina delle risorse (almeno da quelle parti), di chi non chiede più democrazia, rispetto dell’ambiente e dei diritti umani, ma nemmeno tratta gli africani da indigeni ignoranti.

Lo scambio proposto sembra alla pari, sia che i cinesi parlino con democrazie consolidate come il Senegal che il Sudafrica, sia che facciano visita a regimi autoritari dove il voto è una formalità fatta di imbrogli violenza e corruzione, sia che abbiano di fronte dittatori inamovibili e sanguinari: risorse in cambio di merci a basso prezzo, infrastrutture e qualche opera di sviluppo sociale.

Dove poi vanno a finire i soldi di questi accordi commerciali, se qualche rivolo arriva alla popolazione o rimane tutto nelle rapinose mani delle ingorde famiglie di qualche autocrate o di qualche satrapo, ai cinesi non interessa, come del resto non interessava agli occidentali finché il dittatore di turno messo sul trono dall’ambasciatore di turno, non schizzava troppo di sangue il tappeto di pelle di leopardo.

La presenza e l’invasione è così discreta che anche là dove, come nei petroliferi paesi arabi come la Libia, i cinesi costruiscono intere città di palazzoni popolari, la manodopera che viene dalle più povere province della Cina, vive in villaggi separati, recintati, senza contatto alcuno con i locali. Si forniscono palazzi, dighe, strade chiavi in mano e poi si torna a casa, senza lasciare nulla dietro di se, se non una scia di affari ed accordi per l’avvenire.

La Cina ha colmato un vuoto, quasi una ritirata dell’Occidente da un continente che la nostra opinione pubblica aveva dato ormai per spacciato, aggredito dall’Aids e dalla malaria, piegato da siccità devastanti, distrutto da guerre fratricide, sanguinose e cannibalesche per conto terzi in Liberia, Costa d’Avorio, Congo, Somalia, Etiopia ed Eritrea, spossato da regimi quasi folli come quello di Mugabe e di altri improbabili dittatori, percorso da conflitti etnici incomprensibili quanto genocidi e dalle follie religiose integraliste che nascondono la vera ragione di guerra, fame e disperazione: il controllo di petrolio, coltan, diamanti ed altre risorse, anche dell’acqua e del cibo.

In questo continente dato per perso, nel quale troppo spesso la difesa degli interessi delle democrazie avanzate era affidata ai mercenari internazionali e tribali o agli elicotteri Hawk o Augusta, in questa terra antica, ricchissima e spossata che noi tutto al più ricordiamo a Natale per fare un’offerta per il Darfur o per i bimbi vittime dell’Aids, i cinesi sono arrivati ponendosi alla pari, forti del vecchio terzomondismo comunista depurato di ogni velleità ideologica, ed hanno preso a tessere una tela che si sta espandendo in tutta l’Africa. Una presenza oggi visibile con le borse e le cibatte di plastica nei mercati polverosi dei più sperduti villaggi, con i vestiti sgargianti che stanno sostituendo quelli autoprodotti dalle donne, con un po’ di benessere a buon mercato che alza il misero livello di vita di una popolazione grata di quello che a noi sembra paccottiglia e che lì vuol dire un balzo nella qualità della vita. Un lavoro di lunga lena che domani permetterà il controllo di risorse vitali, delle materie prime necessaria per poter far continuare a crescere il vorace gigante asiatico che si appresta a diventare la maggiore potenza economica del Pianeta.

Quanto questo costerà in termini ambientali e quanto sarà grande il terremoto geopolitico che la rapida e silenziosa espansione cinese in Africa provocherà, non sembra interessare né agli occidentali né ai governanti di Pechino e nemmeno agli africani.

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