[08/10/2007] Comunicati

La fatica di leggere una realtà complessa

LIVORNO. Secondo una ricerca Ipsos Mondadori il 62% degli italiani non legge mai un libro e anche qui la forbice tra “ricchi” e “poveri” si sta ampliando. Il dato non è poi una sorpresa, visto che indagini precedenti stimavano in circa un terzo della popolazione gli analfabeti o gli analfabeti di ritorno (cioè chi, pur avendo un’istruzione, non è in grado di decodificare un semplice test) e in un altro terzo circa gli alfabetizzati che, pur essendo in grado di leggere e scrivere, non sarebbero in grado di decodificare un documento burocratico, una ricetta o di leggere un articolo di giornale comprendendone davvero il senso.

Rimarrebbe, come si vede, il terzo che, secondo l’indagine, è anche quello che legge libri e l’altra infima minoranza che legge e compra giornali e che è in grado di decodificare un lungo articolo, capire un testo con termini scientifici, scrivere una lettera con senso compiuto ed in un linguaggio comprensibile.

L’unica speranza è riposta nei ragazzi, che leggono in percentuale più degli adulti, ed i tanto bistrattati best seller servono almeno a mantenere una certa confidenza con le pagine stampate e un minimo di alfabetizzazione diffusa. Questi dati hanno naturalmente anche una ricaduta sociale e ambientale, e riguardano pure la reale comprensione di massa di fenomeni come il riscaldamento climatico, la biodiversità, la gestione di problematiche ambientali “complicate” come i rifiuti, il traffico urbano o addirittura la genetica.

Tutto questo ha probabilmente molto a che vedere con la diffidenza verso l’informazione e la conoscenza scientifica e probabilmente alimenta anche una parte delle molte sindromi Nimby che si vanno sempre più atomizzando nel nostro Paese.

Infatti, molto spesso assistiamo a raccolte di firme su temi complicati, che prevedono conoscenze di leggi e regolamenti complicati e scritti in un linguaggio tecnico-burocratico che, come abbiamo visto, è inaccessibile ai due terzi della popolazione. Dopo di questo, i giornali parlano di rivolta e rabbia da parte di migliaia di cittadini, ma poi (ad esclusione di grandi temi come la Tav o Ca’ dal Molin, nei quali l’opera informativa ha davvero coinvolto gran parte della popolazione), quando i cittadini scendono in piazza a sostenere vertenze sempre più parcellizzate, i manifestanti sono poche centinaia e spesso le forze politiche, che i comitati vorrebbero tenere distanti, si rivelano egemoni.

Le vertenze locali si tengono però insieme usando non più l’informazione diffusa ma blog autoreferenziali e siti dove tutto è scrivibile e dicibile, dove i timidi tentativi di ragionare vengono spesso seppelliti da una discussione unidirezionale, dove chi pone problemi su altri organi di informazione, evidenziando limiti legislativi e dati scientifici e tecnici, viene seppellito sotto l’accusa di essere, a scelta, un burocrate, un servo di questa o quella associazione o di qualche partito, oppure, massima delle accuse, un “intellettuale” spocchioso che crede di saperne più degli altri e incapace di comprendere la genuina realtà popolare.

Spesso l’ignoranza dei reali termini della discussione (legislativi, tecnici e scientifici) viene esibita, come se fosse una virtù, in un traballante italiano ricco di invettive, e chi la mette in discussione, chi la denuncia, viene tacciato come arrogante ed offensivo.

Un vecchio slogan della sinistra diceva che bisogna sapere una parola più del padrone, un’esortazione diventata improvvisamente vecchia perché se si pensa che non leggere mai un libro sia non solo normale, ma anche una buona cosa, se si pensa che leggere e informarsi sia una fatica inutile, allora diventa conseguente che chi lo fa non è “la gente”, salvo poi andare col cappello in mano a chiedere un favore, a farsi scrivere una lettera, a farsi risolvere un problema, proprio come si faceva nell’800.

Ed a questo i giornali non si sottraggono, alimentando, anche senza essere letti dai due terzi delle persone, questo circuito vizioso, riportando acriticamente posizioni a volte insostenibili e contraddittorie, dando spazio a protagonisti di un giorno che intossicano l’informazione con posizioni fideistiche e non supportate da dati reali. Si assiste, come scriveva in un recente articolo su “Internazionale” il giornalista svizzero Serge Enderlin alla «destrutturazione del tentativo di mettere in prospettiva dei valori, la scomparsa della gerarchia dell’informazione. Come sottrarsi a tutto questo? Bisogna comunque sottrarsi? Da molto tempo la stampa, compresa quella di qualità, non si pone più la domanda. Ormai il teatro dell’attualità è popolato da persone comuni che vengono considerate celebrità. La loro vita e i loro gesti sono in sé un‘informazione, indipendentemente dalla loro importanza (spesso non ne hanno alcuna)».

Una comunicazione che arriva comunque anche a chi non legge, mediata da passaparola, tv e nuovi strumenti come internet, scarnifica, semplificata, ridotta ad allarme primitivo che tende ad escludere tutto ciò che è complicato, difficile da affrontare e che mette in dubbio un’immagine in bianco e nero e le nostre personali abitudini (e privilegi) per spostarle su un livello di comune destino.

Così le stesse persone che troviamo a manifestare contro l’inceneritore di turno ieri possiamo averle viste in piazza contro l’istituzione di un’area protetta, la forza politica che vuole le centrali nucleari e a carbone la possiamo trovare a protestare contro il gassificatore o la tramvia.

«Il giornalismo – dice sempre Enderlin – sta perdendo la sua anima in cambio della personalizzazione ad oltranza. Ormai è fatto di persone e, sempre più spesso, di pathos, per rispondere alla domanda di emozioni che crede di percepire dal suo pubblico. Il giornalismo ha perso la sua vocazione primaria, il reportage e l’analisi, pilastri del suo ruolo di mediatore».

E se questo non c’è più, se l’informazione diventa un’eco che rimbalza sui media, perché mai il 62% degli italiani dovrebbe credere che è bene informarsi, fare lo sforzo di estraniarsi da questo rumore di fondo, da queste informazioni da scordare domani, per fare la fatica di leggere un libro, ricordare e pensare?

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