[16/10/2007] Consumo

Scarponcini in pelle riciclata, alberi piantati e bambini-lavoratori

LIVORNO. Nei giorni scorsi la famosa marca di scarpe e di abbigliamento Timberland ha lanciato il programma “Plant on us” ideato insieme a Legambiente: per ogni paio di scarponcini in pelle riciclata “Earthkeeper” acquistato, la multinazionale - a partire dalla primavera 2008 - si impegna a piantare un albero.
«E’ un programma che si inserisce in un contesto più ampio – afferma Maurizio Gubbiotti responsabile del dipartimento internazionale di Legambiente - una serie di progetti di cooperazione internazionale rivolti a Kyoto. E il rimboschimento è una delle azioni che, insieme alla diminuzione di Co2 e del rispetto dei limiti di emissione, è disposta dal protocollo».

Il Protocollo di Kyoto infatti, accanto a vari meccanismi come quello dell’emission trading, prevede l’applicazione di politiche e misure per la promozione di metodi di rimboschimento al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile.
«Abbiamo aperto un rapporto con le aziende – continua Maurizio Gubbiotti - elaborando progetti per la formazione degli operatori e contemporaneamente progetti sull’innovazione di prodotto e di processo finalizzate alla sostenibilità ambientale».

L’iniziativa “Plant on us” è stata presentata in occasione dell’inaugurazione a Milano del nuovo store ecologico – il secondo nel mondo dopo quello di Londra - dotato di arredi riciclati e di materiali di recupero. Uno spazio eco-compatibile a cui si lega un’ulteriore iniziativa: una serie di biciclette parcheggiate davanti al negozio, che nei prossimi 30 giorni saranno date in uso gratuitamente per la giornata a quanti ne faranno richiesta.
Siamo quindi di fronte a una multinazionale che cavalca l’onda della sostenibilità o più probabilmente quella del cosiddetto greenwashing: ovvero ripulire, attraverso la pubblicità, la propria immagine.

Timberland è una multinazionale a controllo statunitense che progetta e commercializza calzature abbigliamento, accessori per il tempo libero e per il lavoro. E se anche il suo mercato principale sono gli Stati Uniti, il 91% delle calzature però proviene da Cina, Vietnam e Thailandia. Ed in totale i terzisti – laboratorio o azienda che svolge attività produttive al servizio di altre imprese - dai quali Thimberland si rifornisce sono 261 localizzati in 35 paesi.

Il dubbio che sorge è se i nuovi scarponcini, se pur prodotti con materiali compatibili siano prodotti secondo i crismi della sostenibilità ambientale e sociale.
Se cioè davvero il ciclo produttivo abbia impatti ambientali minimi e rispettosi dei limiti imposti dalla normativa (naturalmente là dove normativa ambientale esiste. E se i diritti dei lavoratori sono rispettati e per esempio se i bambini sono impiegati nella lavorazioni.

Sicuramente sappiamo – così come documenta la Guida del vestire critico del 2006 elaborata dal Centro nuovo modello di sviluppo – che Timberland ottiene parte dei suoi prodotti da fornitori cinesi e vietnamiti che vietano ogni libertà sindacale. E che appalta la produzione in Bangladesh, Brasile, Bulgaria, Cambogia, Corea del Sud, Egitto, El Salvador, Filippine, Guatemala, Honduras, Hong Kong, India, Indonesia, Messico, Marocco, Pakistan, Perù, Singapore, Tawan, Thailandia, Turchia e che possiede stabilimenti nella Repubblica Domenicana, tutti Paesi che secondo la guida del Vestire critico ostacolano in misutra diversa la libertà sindacale.

Sulla base di un rapporto della campagna Clean clothes del 2005 basato su interviste ai lavoratori in una fabbrica bulgara e uno studio effettuato nel 2004 dall’associazione China labor watch su una fabbrica cinese, risulta che non esistono diritti minimi dei lavoratori, che gli ambienti di lavoro di queste due fabbriche Timberland sono insalubri e pericolosi, che le donne sono discriminate e che vengono impiegati bambini nella produzione delle scarpe.

Nonostante che Timberland dopo tali denunce abbia ammesso l’esistenza di problemi all’interno delle sue fabbriche e in particolare di quella cinese, e la successiva adozione di un codice di condotta per il rispetto dei diritti minimi dei lavoratori per tutta la filiera, i dubbi nei confronti di Timberland rimangono.
Detto questo l’iniziativa “Plant on us” resta in sé positiva e la speranza è che sia uno dei primi piccoli passi in gradi di contribuire a migliorare le performance ambientali e sociali della multinazionale.

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