[15/03/2006] Comunicati

Grande impresa, ricerca e ambiente

LIVORNO. Si può inventare un nuovo software, in un garage, con i soldi presi in prestito. Ma in settori come il biotech, le nanotecnologie e i nuovi materiali, inventare e realizzare presuppone investimenti enormi in macchinari, impianti, attrezzature, brevetti esistenti, formazione professionale. Cosa quasi impossibile per la maggioranza schiacciante delle imprese italiane, dove la dimensione media è di 4 addetti, e di quelle toscane, dove la media è di 3,6 addetti. Eurostat calcola che, in Europa, solo il 24% delle imprese fra 20 e 50 dipendenti possa essere definito high-tech, mentre questa percentuale sale al 42% per le aziende con più di 250 addetti, che, in Italia, sono pochissime e in Toscana ancora meno. Infatti, dice l´Istat, metà della spesa italiana per innovazione è finalizzata all´acquisto di nuovi macchinari per risparmiare sul costo del lavoro. Insomma, l’innovazione di processo non è indirizzata né alla mitigazione degli impatti ambientali né, tantomeno, all’innesco di filiere tecnologiche legate alla ecosostenibilità. La formula della microimpresa che, grazie alla flessibilità, ha fatto la fortuna d´intere aree italiane e dei distretti della Toscana, almeno sotto questo aspetto, non funziona più. E’ la stessa Confindustria che calcola che se la dimensione media per impresa fosse pari a quella francese, inglese o tedesca, la spesa privata per ricerca e innovazione aumenterebbe fra il 50 e il 100 per cento.

Tuttavia, non si è per 50 anni un paese industrializzato per divenire, poi, il deserto dell’high-tech. In Italia, nessuno sta mettendo insieme l’auto ibrida o quella a idrogeno, ma sulle sue parti lavorano aziende come la Nuvera, l’Ansaldo, la Savio. Nel settore della bioplastica, un’azienda come Novamont realizza (dal mais) le gomme per la Goodyear che realizza pneumatici, le forchette biodegradabili per McDonald’s, i sacchetti di plastica biodegradabile utili per i sistemi di raccolta differenziata dei rifiuti urbani. Ansaldo, Savio, Novamont: sono nomi che evocano un’era ormai remota, l’Iri, l’Eni, la Montedison. Sono gli spezzoni ancora vaganti di una grande impresa italiana che fu. Quello che manca all’alta tecnologia italiana, dicono gli economisti, è anzitutto il «grande aggregante», la grande impresa che abbia i mezzi e le strategie di lungo periodo per farsi collettore delle energie e delle idee che le circolano intorno.

In Toscana, storicamente, e ancora oggi, chi parla di industria manifatturiera parla di distretti. La grande impresa da sempre caratteristica della costa, forse perché da sempre con il cervello fuori regione (e ora anche fuori nazione), viene considerata solo nei momenti di crisi e di esuberi e/o per i suoi indubbi impatti ambientali. Mai per la sua intrinseca vocazione alla ricerca applicata. Eppure le istituzioni locali si sperticano nel rivendicare una dubbia strategicità delle produzioni della grande impresa industriale e non si accorgono che, invece, ad essere strategica è la conoscenza, il sapere sedimentato e le dimensioni organizzative. Tutti ingredienti tanto impalpabili quanto, davvero, strategici. Non può essere strategico produrre «billette» di acciaio (che infatti in Cina e Brasile fanno bene quanto noi e a costi stratosfericamente minori). Strategico è inventare nuove leghe di acciaio, nuovi prodotti per nuovi usi (non dimentichiamo che l’acciaio è un materiale pulito e riciclabile) e nuovi metodi di produzione attraverso processi e tecnologie che abbattano gli impatti ambientali. Obiettivi possibili attraverso la conoscenza e lo sviluppo della ricerca applicata in un tutt’uno con Università e istituzioni locali. Roba che in Germania, nella Ruhr, si cerca di fare almeno da vent’anni. Roba che la Germania, infatti, esporta, quella sì, in Cina, India, Brasile e Corea. Roba che in Toscana non ci passa neanche per la testa. Purtroppo.

(nella foto un bicchiedere biodegradabile per la birra)

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