[05/10/2011] News

L’empatia un “fiore fragile”? È il più prezioso che rimane a difesa della nostra umanità

‹‹L'empatia ti orienta verso l'azione morale, ma non sembra aiutare molto quando tale azione ha un costo personale. Si può sentire una fitta per il ragazzo senza tetto che chiede l'elemosina sul lato opposto della strada, ma le probabilità sono che non avrai l'intenzione di attraversarla per dargli un dollaro››. David Brooks, editorialista conservatore del New York Times, in un suo recente pezzo titolato "I limiti dell'empatia", ritiene come la speranzosa fiducia che sembra diffondersi da ormai qualche tempo verso la capacità umana di immedesimarsi nell'altro di "rendere il mondo un posto migliore" sia alquanto infondata.

«Ci sono stati mucchi di studi che hanno valutato il legame tra l'empatia e l'azione morale - continua Brooks. Diversi studiosi sono giunti a conclusioni diverse ma, in un recente documento, Jesse Prinz, un filosofo alla City University di New York, ha riassunto tali ricerche in questo modo: "questi studi suggeriscono che l'empatia non è un player importante per giungere ad una motivazione morale"».

«Inoltre, sostiene Prinz, l'empatia spesso porta le persone fuori strada. Essa influenza le persone, inducendole a curarsi di più di "vittime carine" che "vittime brutte". Conduce al nepotismo. Sovverte la giustizia; le giurie danno sentenze più leggere agli imputati che mostrano tristezza. Ci porta a reagire a incidenti scioccanti, come un uragano, ma non alle condizioni che durano nel tempo, come alla fame nel mondo o malattie invece prevenibili».

Brooks fa dunque eco a chi definisce l'empatia un "fiore fragile", un "baraccone" che può facilmente trovarsi schiacciato dalla preoccupazione per se stessi. Quel che davvero guida i nostri comportamenti morali, in realtà, sono quei codici etici che strutturiamo artificialmente: codici sociali, religiosi o militari che siano. Saremmo dunque spinti prevalentemente dal senso del dovere verso qualcosa, più che dall'empatia.

A rispondere alle opinioni di Brooks, dalle pagine di Psychology Today, è il direttore dell'Institute for the study complex system dello stato di Washington, il biologo Peter Corning, che in merito afferma: «non è così semplice. In primo luogo, si noterà che il filosofo citato da Brooks ha detto solo che gli studi da lui recensiti "suggeriscono" che l'empatia è un fattore secondario. Questa è una classica "parola ambigua" per affermare che ciò è molto meno che conclusivo. In effetti, ci sono altri studi che suggeriscono il contrario - che l'empatia è un fattore causale significativo nel nostro comportamento sociale e morale. Un'interpretazione più sfumata è che l'empatia è necessaria, ma potrebbe non essere sufficiente. Infatti, ci sono molti altri fattori che influenzano il nostro comportamento sociale».

Comunque, prosegue Corning, «un codice morale che non evoca in noi anche il nostro senso di compassione e di correttezza verso gli altri è come una canzone senza le parole (o forse viceversa). Allo stesso modo, il furto è un crimine ovunque, e la maggior parte della gente sarebbe pronta a sostenere il divieto di rubare, in linea di principio. Ma in una società repressiva e di sfruttamento, caratterizzata da estremi di ricchezza e povertà molto accentuati, le simpatie di molti di noi andrebbero ai Robin Hood e gli Zorro, che rubano ai ricchi per dare ai poveri».

Corning sembra dunque confermare l'idea per cui qualunque codice di comportamento, nella sua astrattezza, deve comunque tener conto che i soggetti che pretende di regolare tanto astratti non sono, e la capacità di provare empatia fa parte della loro natura; quando empatia e codice divergono eccessivamente, il codice comincia a perdere la sua presa. Il problema è, come sottolinea ancora Corning, che «come regola, siamo più propensi a provare empatia verso qualcuno che è vicino a noi, o come noi», e la difficoltà sta nel promuovere un ampliamento del personalissimo "cerchio empatico" in modo che possa ricomprendere non solo i parenti, gli amici o gli spiriti affini; un compito non semplice, in una società globalizzata dove l'atomizzazione dell'individuo ormai è la norma.

Usando le parole di Corling, «in sintesi, l'empatia è viva e vegeta, ma ha bisogno di nutrimento costante. Fornirglielo è il compito che ci attende». Solo se realizzeremo questa necessaria premessa sarà possibile perseguire con profitto il metodo suggerito da Brooks per "rendere il mondo un posto migliore", ovvero quello di «aiutare le persone a dibattere, capire, riformare, riverire ed attuare i loro codici». Ricordando anche che un codice non più adatto potrà sempre esser rivisto e corretto, mentre non possiamo permetterci di non difendere quel che più caratterizza la nostra specie, e che non a caso chiamiamo "umanità".

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