[12/07/2012] News

In Italia affonda la ricerca, in UK il settore pubblico. La snob-politik rinuncia al ruolo di guida

L’Europa deve uscire dalla crisi con soluzioni (e scelte strategiche) globali

Uno degli automatismi più forti che lega i cittadini del Vecchio Continente, ovunque siano sparsi, è quel difetto definibile come "eccesso di protagonismo". In mancanza di un acceso e diffuso sentimento federalista europeo, dobbiamo accontentarci di un narcisistico eurocentrismo: una mania giustificata con la rilevanza storica dell'Ue nell'evoluzione del mondo moderno per come oggi lo conosciamo. Vista dall'Europa la crisi appare come un affanno che ci riguarda quasi in via esclusiva; i nostri partner commerciali lo sanno, e usano questa nostra percezione snobista come un grimaldello per rincarare la dose. Si guarda all'Unione europea come il malato da curare, quando il morbo è globale.

È pur vero che l'occhio del ciclone vortica al momento attorno all'Europa, che rimane l'area economica più potente al mondo, tenuta però insieme dal fragile filo di una moneta unica senza una politica unitaria. «Quanto incida la crisi dell'Unione è in realtà un po' difficile da calcolare - scrive il Sole24Ore - Non impossibile, però: Bruce Kasman, David Hensley e Joseph Lupton di JPMorgan hanno stimato che in media la flessione di un punto percentuale del Prodotto interno lordo di Eurolandia si traduce in un calo di 0,4 punti del Pil del resto del mondo».

«Il mondo ringrazia (ed Eurolandia pure...) Anche in questo caso, però, è bene non esagerare. Dai numeri a disposizione - e con la consueta incertezza nelle possibili deduzioni - emerge che l'Unione monetaria, e la frettolosità dei suoi politici, non spiegano tutto. Qualcos'altro è in movimento». Rispondere a cosa sia questo qualcos'altro è, tutto sommato, così doloroso che preferiamo dirottare la domanda su questioni più "semplici": la riforma del mercato del lavoro, i tagli alla spesa pubblica, la supervisione bancaria. Un blocco psicologico frena la lingua davanti al termine crisi di sistema. «Il mondo rallenta, i flussi commerciali sembrano frenare, l'incertezza cresce».

Come ricorda Galimberti, sempre sul Sole24Ore, «la crisi partì dall'America. Un "fallimento del mercato" nella creazione incontrollata di strumenti finanziari opachi e pericolosi, un fallimento della regolazione che non intervenne a tempo per fermare quella bolla del credito, prestiti chiesti da prenditori spensierati e concessi da prestatori irresponsabili, un fallimento della scienza economica, che non aveva sufficientemente analizzato l'interazione fra economia e finanza». Dopo trent'anni di deregolamentazione economica, riesce ora assai difficile tornare sui propri passi e riconoscere la necessità di una guida per l'economia, un indirizzo che non può essere soppiantato dall'autoregolamentazione, se non con gli effetti che oggi abbiamo sotto gli occhi. La tentazione di "affamare la bestia" (ossia lo Stato) propria dei repubblicani Usa è un sentimento ancora diffuso e le cui reminescenze sono tentacolari.

Mentre l'osannata Cina percorre la strada opposta la Gran Bretagna soffre per lo scandalo finanziario delle manipolazioni sul Libor ma non rinuncia a seguire la linea tracciata a suo tempo da Reagan negli Usa: «La "scoperta" - sottolinea il quotidiano di Confindustria - è l'uso estremo dell'outsourcing, ovvero del travaso di funzioni dello Stato a enti privati». Si spinge per una privatizzazione degli ospedali, della polizia, delle carceri. Servizi essenziali e, negli ultimi due casi, legati alla sicurezza di una nazione, nel senso più proprio del termine. Fu il filosofo londinese Jeremy Bentham a progettare il "carcere perfetto", quel Panopticon dove un unico guardiano riesce a sorvegliare contemporaneamente tutti i detenuti. Ironia della sorte, questa inquietante parabola del potere potrebbe concludersi col guardiano, lo Stato, lasciato in mutande.

Nella enorme sfida che la complessità della crisi ci impone, con la richiesta implicita di imboccare una via dello sviluppo che si smarchi dal passato e si possa finalmente definire sostenibile, la tentazione forte è quella di chiudersi nelle strategie familiari, già sperimentate, per quanto fallimentari. È comprensibile, ma dobbiamo resistervi e riscoprire la responsabilità della guida, da parte della politica democratica e quindi, di riflesso, di tutti i cittadini.

Nella «dichiarazione congiunta di Confindustria e la consorella Bdi tedesca» citata dal Sole24Ore si riconosce che «ricerca e sviluppo rappresentano la priorità assoluta per rilanciare i settori industriali». Oltre alle dichiarazioni d'intenti, però, i fatti parlano di una politica impaurita dallo spread che non fa che automutilarsi nelle competenze del settore pubblico: il ruolo delle cassandre non ci appartiene, un altro segnale estremamente negativo in tale direzione sono le parole di Enrico Giovannini, direttore dell'Istat, intervistato da la Repubblica. A causa dei tagli, «Dal prossimo gennaio non effettueremo più statistiche. Continueremo a pagare stipendi e affitti, ma non riusciremo ad assolvere alla nostra funzione: fornire dati di qualità, affidabili, tempestivi». Se addirittura l'Istituto nazionale di statistica dovesse davvero incrociare le braccia, con l'acqua alla gola, significherebbe che il futuro per la ricerca italiana è ancora più fosco di quanto comunemente ci immaginiamo. E non sarebbe affatto una buona notizia.

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