[12/09/2012] News

«Investire in un laureato vale 100.000$ di benefici netti per lo Stato»

L’istruzione spiegata dall’Ocse è la chiave per la «produttività di sistema». Ma l’Italia non lo sa

A dispetto dei comuni pregiudizi, l'istruzione paga. Ma in Italia si snobba questa realtà, discutendo di una "produttività" ormai vuota. Nel suo rapporto annuale Educational at glance 2012 (Uno sguardo sull'istruzione), l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ha misurato la performance dei sistemi educativi nei 34 Paesi membri dell'organizzazione tramite la lente d'ingrandimento di «140 grafici, 230 tavole, e 100.000 dati», sottolineando i benefici di un livello più alto d'istruzione per «la resilienza dell'economia e del mercato del lavoro», specialmente in tempo di crisi.

In media, e secondo gli ultimi dati disponibili (anno 2010), nei Paesi Ocse il tasso di disoccupazione per l'insieme degli uomini laureati è stato di un 1/3 inferiore rispetto ai diplomati (il vantaggio si riduce ad 2/5 per le donne), quando lo scarto rispetto alle persone - di entrambi i sessi - che si sono fermate prima del diploma si scuola superiore è ancora più ampio. «Fin quando le società continueranno ad avere bisogno di aumentare le competenze di alto livello - si legge nel rapporto Ocse - è probabile che i vantaggi collegati al fatto di avere un livello d'istruzione universitario continueranno a essere solidi non solo nel breve ma anche nel lungo termine».

Nel lungo termine, infatti, il vantaggio economico di una laurea rispetto ad un diploma, in media, è stato stimato in 160.000 dollari per un uomo e 110.000 dollari per una donna. Per chi lamenta che il costo complessivo per portare uno studente al conseguimento della laurea è pari a circa 140.000 dollari (come mostrato in un precedente studio Ocse), senza neanche contare che «indubbiamente i vantaggi pubblici e privati dell'istruzione vanno oltre i meri benefici economici» l'Ocse sembra ribattere direttamente: «I contribuenti ottengono un sano ritorno dai fondi pubblici utilizzati per aiutare coloro che scelgono di seguire la via degli studi universitari». Si parla, in media, di un beneficio netto pari a 100.000 dollari di «maggiori entrate tributarie e altri risparmi per ciascun uomo», il triplo dell'investimento pubblico iniziale (nel caso delle donne il ritorno netto è invece "soltanto" il doppio).

Ha ragione dunque Susanna Camusso, segretario generale Cgil, a ribattere al premier Monti che «la crescita non può dipendere da quello che le parti sociali possono fare in termini di produttività aziendale. Servono interventi sulla produttività di sistema, politiche industriali ed energetiche da parte del Governo». Alla parola "produttività" - il mantra di questi giorni, dopo la parola spread (e altrettanto poco capita) - è necessario restituire un senso. Aumentare la produttività del lavoro classicamente intesa - la quantità di prodotti diviso il tempo necessario alla loro produzione - non avrebbe senso.

Produrre di più in meno tempo, quando con la crisi economica sono crollati i consumi, porterebbe solo ad ulteriori licenziamenti, mentre è proprio ad un nuovo modello di consumo che è necessario ambire. Altra cosa sarebbe parlare di un aumento per gli investimenti, pubblici e privati, in istruzione, ricerca e sviluppo, puntando ad una manifattura ad alto valore aggiunto: un aumento del Pil per ora lavorata non è affatto la stessa cosa di un aumento della produzione per unità di tempo, ma un salto qualitativo.

Le classi dirigenti del Paese, purtroppo, non sembrano ancora voler adottare questo punto di vista. Coerentemente, l'Italia è sistematicamente in fondo ad ogni classifica stilata dall'Ocse: che si tratti degli investimenti pubblici e privati nel settore dell'educazione in percentuale del Pil (grafico 1) o della spesa nei servizi per l'educazione - dalle strutture scolastiche alle mense - e in R&S (grafico 2), il Bel Paese è sistematicamente sotto la media, e di molto. "Brilliamo" soltanto nella classifica Neet (quella dei giovani non che non studiano e non lavorano), conquistando il quinto posto assoluto (gradico 3): un caso perfetto di investimento buttato al vento.

Tutto questo mentre «tra il 2008 e il 2009, la spesa governativa, aziendale e dei singoli studenti e delle rispettive famiglie per tutti i livelli d'istruzioni indistintamente è aumentata in 24 Paesi dell'Ocse su 31 secondo i dati disponibili. Tale tendenza si è riscontrata anche quando la ricchezza nazionale, misurata dal PIL, è diminuita in 26 dei suddetti Paesi». 

Incredibilmente in Italia, Paese dall'enorme patrimonio culturale, sembriamo improvvisamente non capire più che nella «produttività di sistema» il ruolo ricoperto dall'istruzione è prioritario: sarebbe inutile programmare anche la più ambiziosa politica industriale senza dedicare i maggiori sforzi possibili nel formare i lavoratori che dovranno darle vita concreta. A maggior ragione se all'orizzonte c'è - o dovrebbe esserci - una politica industriale improntata alla sostenibilità, che richiede sensibilità e competenze ancora troppo scarse sul territorio italiano.

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