Val di Cornia a rischio cave, su Monte Calvi potrebbe nascerne una da 200 ettari (FOTO)

Le osservazioni di Legambiente al progetto Cave di Campiglia e Solvay: «Una superficie così elevata non trova riscontro di alcun tipo. Non si conosce ad oggi la necessità di tale materiale»

[21 Febbraio 2019]

È in fase preliminare di Vas (Valutazione ambientale strategica) un procedimento che, se arrivasse a positiva conclusione, potrebbe cambiare per sempre lo “skyline” della Val di Cornia, quello delle colline che ne cingono il territorio: le società Cave di Campiglia e Solvay propongono infatti un ampliamento contestuale delle cave di Monte Calvi e di San Carlo, un progetto contro il quale i circoli Legambiente Costa Etrusca e Legambiente Val di Cornia hanno appena inviato osservazioni in Regione.

Come spiegano dal Cigno verde, nonostante le autorizzazioni già in essere prevedano «l’escavazione ancora di diversi milioni di mc di calcare con un’autonomia di qualche decennio», la nuova richiesta di ampliamento – dopo quelle approvate nel corso degli ultimi anni – assume dimensioni di grande rilievo: «Avrà un impatto complessivo sul territorio pari a 55 ettari di superficie, oltre 50 milioni di mc di volumi di versante di collina da abbattere. Se si aggiungono le superfici ancora in fase di coltivazione, si raggiunge la cifra record di circa 200 ettari di un unicum di cava, un impatto devastante sul paesaggio collinare». Di fatto la proposta avanzate dalle due società determina «la fusione delle due superfici ad oggi dedicate ad attività estrattiva, creando un fronte unico che interesserà e coinvolgerà l’intero versante sud e ovest del Monte Calvi», andando in questo modo a configurare «una delle più grandi attività estrattive della Toscana dove, con facile previsione, si determinerà il polo estrattivo di approvvigionamento di materiale calcareo della Regione e forse del centro Italia».

Tale polo estrattivo andrebbe così a nascere all’interno di un’area Sito d’interesse comunitario (Sic, Zona speciale di Conservazione (Zsc) e Natura 2000, dove vige un vincolo paesaggistico e dove sono presenti zone d’interesse archeologico con presenza di miniere del periodo etrusco. Non solo: «Riteniamo – osservano da Legambiente – che la protezione di tale unità naturalistica non sia solo legata agli aspetti ambientali e panoramici ma anche ad una azione principale di protezione civile e di ricarica del sistema geotermico e termale relative del complesso carbonatico dei monti di Campiglia. Nel contesto termale locale si sono verificati segni di indebolimento delle portate», senza dimenticare che «un ulteriore smantellamento delle pendici di Monte Calvi porterebbe anche pericolo di rischio idraulico per tutti i sistemi di drenaggio più importanti che attraversano i centri urbani, soprattutto l’abitato di San Vincenzo».

Visto il contesto nel procedimento autorizzativo «sarebbe obbligo» presentare uno studio che calcola l’incidenza, dell’esecuzione del progetto di cava, sul complesso naturalistico oggetto di protezione per cui sono stati posti i vincoli presenti, eppure Legambiente non ha trovato «nessuna relazione di studi sull’incidenza: questa è una grave violazione normativa» che, soppesata insieme all’ampiezza del progetto proposto, insinua dubbi nei circoli ambientalisti: «Che sia una strategia tesa a determinare l’opposizione dei territori, così da avere poi la scusa per spostare le proprie produzioni in altri Paesi europei, dando la colpa ai “soliti ambientalisti”?». Quel che è certo è che, nonostante uno scenario così impegnativo per il territorio, dai documenti presentati dalle società Legambiente non si riesce a trovarne lo scopo: «Non si evidenzia quali esigenze commerciali e produttive si dovranno soddisfare, per quali usi sarà finalizzato il materiale estratto e per quanto tempo – argomentano dal Cigno verde – Una superficie così elevata non trova riscontro di alcun tipo. Non si conosce ad oggi la necessità di tale materiale e non si elabora un piano a livello regionale dove sia possibile razionalizzare punti di approvvigionamento e punti di utilizzo. Ma soprattutto non si evidenziano le alternative».

«Il ricatto occupazionale – concludono da Legambiente – va respinto garantendo i posti di lavoro attuali e contemporaneamente costruendo una strategia per i prossimi anni che ne crei altri senza saccheggiare e distruggere il territorio, preservandone e rinnovandone le risorse naturali e la loro qualità, con nuova industria, attività agricole, artigianali, turistiche, di servizi, a partire dal ripristino ambientale e paesaggistico dei siti estrattivi dismessi e le bonifiche delle aree industriali dismesse. Tutto questo crediamo sia possibile anche attraverso l’avvio, a livello regionale, di un serio sistema di recupero e riuso delle risorse, dando concretezza al concetto di economia circolare tanto sbandierato e purtroppo ancora poco applicato».