Dal filosofo Leif Wenar una nuova bussola per il clean trade

Come abbattere il Re nero e la schiavitù delle risorse naturali rubate

Il ruolo dell’Italia e dell’Ue per una politica commerciale che «rispetti il diritto fondamentale dei popoli a controllare le risorse del proprio paese»

Solo due sono le costruzioni umane visibili a occhio nudo dallo spazio: la prima è la Grande muraglia cinese, l’altra è la piattaforma Troll – realizzata per estrarre gas naturale al largo delle coste norvegesi. Le industrie, le infrastrutture e i complicati processi dai cui dipendono l’estrazione e l’impiego delle materie prime rappresentano le meraviglie del mondo moderno, e da queste materie prime dipende l’intero, intricatissimo equilibrio del mercato globale che lega i destini di oltre 7 miliardi di persone.

Questa interminabile serie di delicati meccanismi sono però oliati da profonda ingiustizia, che a sua volta porta crepe e pesanti inefficienze nel sistema. Il Re nero, ponderoso volume firmato dal filosofo Leif Wenar (e portato meritevolmente in Italia dalla Luiss university press) si occupa di questo: «Di come far progredire l’economia globale senza danneggiare la supply chain (catena di distribuzione, ndr) dalla quale così tante cose dipendono».

Al centro della riflessione, che abbraccia tutto l’orizzonte delle materie prime, viene posto il petrolio per l’importanza multiforme che ancora oggi riveste. «Tutto il mondo – ricorda Wenar, che ha impiegato 8 anni per mettere insieme dati e argomentazioni del libro – utilizza 1.000 barili di petrolio, cioè circa 160mila litri, ogni secondo». Dal punto di vista energetico a soli 4 litri di petrolio corrispondono cinquanta giorni di lavoro di uno schiavo, e «se si considera il consumo pro capite di energia è come se ciascun essere umano possedesse 23 servi che lavorano per lui o per lei di continuo».

Questa purtroppo non è solo una metafora astratta per spiegare il ruolo dei combustibili nel progresso umano. Dietro le materie prime che alimentano lo stile di vita occidentale ci sono ancora innumerevoli esseri umani in catene, sotto il giogo di dittature o sanguinari miliziani.

Il 60% del petrolio utilizzato nel mondo varca un confine internazionale, e solo in alcuni casi arriva da un Paese (come ad esempio la Norvegia) dove vige la sovranità popolare delle risorse, un principio presente fin nella Convenzione internazionale sui diritti economici, sociale e culturali (una codificazione della Dichiarazione universale dei diritti umani) e dunque sottoscritto «con validità di legge» da quasi ogni nazione al mondo.

Negli Stati dove la sovranità popolare delle risorse non è applicata, le risorse naturali stesse sono una maledizione che calamita morte e povertà. Una maledizione cui noi occidentali contribuiamo in modo consistente: una famiglia Usa spende in media in un anno 2.912 dollari per l’acquisto di benzina, 275 dollari dei quali finiscono per alimentare regimi autoritari. Una stima per l’Italia non c’è, ma i dati forniti oggi da Eurostat sono indicativi: dal 1990 a oggi la dipendenza del nostro Paese dall’importazione di combustibili fossili è passata dall’88 al 91%.

Cosa possiamo fare per evitare che i nostri soldi arricchiscano dittature? La risposta avanzata da Wenar boccia in toto l’opzione di chi vorrebbe “esportare” la democrazia con le armi – nel rispetto dell’autodeterminazione dei popoli – ma sottolinea piuttosto la necessità di fare pulizia in casa nostra. Sono le nostre leggi che permettono di rendere legale uno scambio commerciale di beni rubati – quelli sottratti dal dittatore al proprio popolo. Introdurre un approccio clean trade basato sul rispetto effettivo di principi già oggi incardinati nel sistema di diritto internazionale (la sovranità popolare delle risorse e i diritti di proprietà) permetterebbe di ribaltare completamente i termini del problema. Non si tratta di utopia: una rivoluzione ancora più radicale è già avvenuta a partire dal 1787, quando a Londra «una dozzina di uomini si impegnarono solennemente in una improbabile campagna per far terminare il commercio atlantico degli schiavi». Sembrava un’operazione impossibile, soprattutto a partire dalla Gran Bretagna – che allora rappresentava la nazione che dominava il mercato mondiale degli schiavi – eppure sappiamo com’è andata a finire.

Ne Il Re nero il professore di Philosophy and law al King’s College di Londra propone al proposito più linee d’intervento, contenute in una sorta di Clean trade act atto a sostituire una «politica commerciale basata sull’efficacia (la forza crea il diritto, ndr) con delle leggi che rispettano il diritto fondamentale dei popoli a controllare le risorse del proprio paese». In pratica, approvare un Clean trade act significa per un Paese interrompere i propri rapporti commerciali con i venditori di risorse di un paese che non soddisfa le condizioni minime per la sovranità popolare delle risorse», con vari gradi possibili nell’approccio a questo principio.

Un’operazione del genere avrebbe un costo immediato per i Paesi importatori come il nostro, ma anche ampi benefici: sul fronte morale, della sicurezza geopolitica, di approvvigionamenti energetici stabili. Negli ultimi quattro anni «l’Unione europea ha importato più della metà del petrolio greggio e più di un terzo del gas naturale da paesi “non liberi”» e dunque «nel complesso (per quanto riguarda i soli idrocarburi, ndr) il clean trade fissa all’Europa l’obiettivo di dimezzare il consumo di petrolio, di ridurre di un terzo il consumo di gas e di un quarto il consumo di carbone».

Obiettivi ambiziosi, come si vede, ma possibili e determinanti se spinti nella direzione di una conversione ecologica dell’economia. Già oggi, ci informa Eurostat, la verde Danimarca dipende solo per un 4% dall’import di combustibili fossili (rispetto al 47% del 1990). Anche l’Italia ha ingenti risorse rinnovabili cui attingere: ad esempio circa l’8% dei consumi energetici nazionali è già coperto dal fotovoltaico, e la risorsa geotermica potrebbe fornire oltre 3 volte tutta l’energia primaria consumata nel Paese nell’intero 2015.

Oggi che è in fase di elaborazione la nuova Sen – Strategia energetica nazionale, puntare su un clean and green trade andrebbe a beneficio del Paese e del nostro ruolo nel mondo globale. Senza dimenticare le milioni di tonnellate di altre materie prime (non energetiche) che il nostro Paese importa, dalle biomasse ai metalli, anziché valorizzare adeguatamente l’economia circolare nostrana: su questo terreno è indispensabile un salto di qualità nel dibattito politico, che preferisce bellamente disinteressarsi dei flussi di materia.