[27/11/2008] Consumo

Crisi, Fabris: «Uscire dall´incrocio miseria-obesità»

LIVORNO. Il pacchetto Barroso da 200 miliardi di euro presentato ieri dall’Ue è in gran parte un compendio dei vari piani di rilancio proposti dai singoli stati, anche se non mancano ‘illuminazioni’ che fanno stropicciare gli occhi di fronte alla miopia dell’atteggiamento italiano di fronte alle opportunità offerte da una riconversione ecologica dell’economia: ieri evidenziavamo come la seconda parte del documento si intitoli «Continuare ad investire nel futuro» sottolineando fin da subito che «stiamo assistendo all´inizio di un grande cambiamento strutturale verso una economia a basse emissioni di carbonio». Questo prevede l´Ue con la possibilità di creare nuove imprese, nuove industrie e milioni di nuovi e remunerativi posti di lavoro: cioè investimenti, perché come spiega anche Carlo Bastasin oggi sul Sole 24 Ore «un impulso alla domanda non sarebbe appropriato all’Europa quanto all’America», perché «se l’economia Usa si trova in una tipica trappola keynesiana con la necessità di compensare il calo della domanda privata, in Europa il calo dell’attività sembra indotto dalla sfiducia sulla redditività degli investimenti». Il nodo vero è poi semmai quello di individuare quali sono gli investimenti: non certo le grandi opere che si ostina a pubblicizzare il governo (anche se il rapporto Aiscat spiega che in realtà è coperto finanziariamente appena il 39% del totale dei costi stimati per la realizzazione delle 139 opere deliberate dal Cipe).

Quindi al di là degli aiuti a chi ne ha veramente bisogno (social card), più che di rilancio dei consumi oggi c’è bisogno di investimenti in innovazioni di processo e di prodotto, in risparmio ed efficienza energetica e di materia, in ricerca sulle energie rinnovabili, in qualità della vita. Ne abbiamo parlato con Giampaolo Fabris, professore ordinario di Sociologia dei Consumi all´Università San Raffaele, dove insegna anche Strategia e gestione della marca.

«Anziché pannicelli caldi, è necessaria oggi una riflessione sul nostro modo di vivere perché è facile pensare che questa situazione economica continuerà a lungo: il nodo della questione è che ormai la struttura dei consumi non è più in grado di produrre benessere e qualità delle vita.
Quando mi trovo in America mi colpisce più di ogni altra cosa questo incrociarsi di miseria e di obesità, questo accanimento ingordo nel mangiare porcherie ben al di là delle proprie esigenze che ha prodotto queste mostruosità.
Obesità che negli ultimi anni ho cominciato a incontrare sempre più di frequente anche nel sud est asiatico povero, dove l’occidentalizzazione sta portando malattie coronariche, polmonari, diabete e appunto obesità. Ormai i consumi hanno intaccato gran parte delle sfere esistenziale degli uomini e stiamo diventando sempre più mostruosi e bulimici».

E’ innegabile però che la crescita dei consumi e in generale dell’economia, abbia portato negli ultimi anni a un miglioramento generale della qualità della vita, basta vedere quanto è cresciuta in quasi tutti i Paesi l’aspettativa di vita.
«Indubbiamente, ma le indagini dimostrano anche che la stretta relazione tra l’aumento dei consumi e delle qualità della vita vale fino a un certo punto. Poi c’è una divaricazione inevitabile.
Io non amo le interpretazioni fondamentaliste del non consumo, che considero alla stregua di visioni talebane e polpottiste, ma ritengo che l’urgenza sia una rivisitazione degli attuali stili di vita».

La sua idea sembra quindi avvicinarsi molto di più allo “Stato stazionario” ipotizzato da Giorgio Ruffolo, piuttosto che alla decrescita di Latouche.
«Dipende, anche perché Latouche non è privo di contraddizioni e nel suo ultimissimo manualetto apre a una via intermedia. È chiaro che l’obiettivo utopico da raggiungere sarebbe l’abbattimento dell’attuale sistema economico capitalistico, ma ciò non è e non sarà mai all’ordine del giorno: bello da dire, impossibile da realizzare in anni ragionevoli. Insomma, la decrescita che Latouche preferirebbe chiamare a-crescita con l’alfa privativo non è perseguibile a livello di massa: è inutile coltivare delle nicchie se poi è impossibile disabituare centinaia di milioni di persone.
Prima di cambiare modello antropologico invece, dobbiamo far prendere consapevolezza che ci sono benefici, devono essere introiettati nella persona in modo che ciascuno li scopra autonomamente, affinché si raggiunga una mobilitazione di massa: la mia generazione definiva questo atteggiamento come ‘socialdemocratico’, in modo sprezzante, ma io credo che oggi sia questa la strada da perseguire».

Nel suo intervento di lunedì su Affari & Finanza di Repubblica spiega come sia necessaria una presa di consapevolezza che la qualità della vita al di là di un certo livello di consumo, deve trovare altre strade per realizzarsi. La sua è una critica forte al Pil.
«Guardi io quando ne parlo, parlo sempre di Pil lordo, ovvero sporco. E’ l’indicatore più miope dell’economia come triste scienza ed è singolare come in molti paesi diversi economisti abbiano aperto al Pil verde, anche se poi difficilmente si sono tratti in azioni politiche questi buoni insegnamenti.
Con una delle mie società di ricerca in America abbiamo messo a punto diversi anni fa l’indice di soddisfazione dei consumatori. Un indice piccolo, quasi banale, ma che finalmente introduceva una dimensione quantitativa. All’epoca del primo governo Prodi avevamo provato a portare questo indicatore – che ripeto sarebbe veramente minimo, oggi ce ne sono di buonissimi e più completi - anche nel nostro Paese. Ebbene intervennero diverse lobbies finanziarie a bloccare il progetto perché non volevano rendere pubblici questi dati e utilizzarli per le loro strategie.
Cosa dire, il Pil è semplicemente offensivo dal punto di vista sociale e antropologico».

Secondo lei quanto e come si possono cambiare gli approcci teleguidati al consumismo delle persone dei ceti popolari, quelle per capirsi che magari sono soci Coop, solidali, anche un po’ ambientalisti, ma fanno la coda per comprare il telefonino ultimo modello?
«Bisogna aprire una riflessione che non può venire senza una forte mobilitazione mediatica, altrimenti faremo la fine di Savonarola. Non credo sia impossibile e le porto un paio di esempi: le pellicce sono state demonizzate e oggi resistono solo in particolari nicchie, mentre avrebbero avuto uno sviluppo potenziale enorme senza la mobilitazione che c’è stata. Più recentemente abbiamo avuto una campagna di demonizzazione dei Suv: inquinanti, energivori, costosi, quasi sempre inutili. Qualcosa anche in questo si è ottenuto. Insomma vedo molti piccoli buoni segnali di evoluzione dei consumi, anche se magari in molti casi sono stati suscitati da motivazioni economiche: una sensibilità maggiore alle questioni climatiche, l’attenzione a ridurre gli sprechi, le offerte (e le domande) di prodotti a chilometro zero, la presa di consapevolezza che la destagionalità si paga tantissimo in termini ambientali, che la biodiversità è un valore da preservare. Insomma, quello non posso certo insegnarvi io a voi: che questo modello è insostenibile dal punto di vista ambientale, perché un pianeta limitato non può avere una crescita illimitata. I ricercatori sociali vedono con chiarezza questa cosa, sanno che la dotazione di un ulteriore pacchetto di consumi e il surplus di lavoro per incrementare i consumi sta creando un peggioramento della qualità della vita. Ma vedono anche che i cittadini cominciano a rendersene conto: il consumatore oggi si rende conto di avere non solo diritti, ma anche doveri e responsabilità nei confronti degli altri e dell’ambiente. Questa responsabilità la attua premiando o penalizzando marche, prodotti, settori tecnologici che si comportano in modo eticamente e ambientalmente corretto. Il consumo da oggetto di critica sta diventando sempre più soggetto di critica, ed è questa la vera rivoluzione copernicana a cui stiamo assistendo, anche se in molti ritengono che sia cominciata troppo tardi».

Ci parli del suo progetto all´Università Vita-Salute San Raffaele: lei dichiara di puntare a formare la futura classe dirigente del Paese nella gestione dei mercati e della comunicazione di impresa: il governo della polis tornerà a riorientare l’economia?
«La mia ambizione è quella di creare un nuovo modo di pensare i rapporti tra produzione e consumo, dimostrare che la responsabilità sociale non è solo una retorica asserzione, ma fare in modo che si cominci a praticarla davvero. Se è vero che è impossibile l’abbattimento di questa struttura economica e la fine della storia del modello capitalistico su base planetaria, ora si prende consapevolezza però della necessità di un cambiamento sociopolitico. Anche nel mio ultimo libro Societing che provocatoriamente ho voluto pubblicare con Igea Bocconi, quindi nella tana del lupo, tento questa riscrittura del marketing, rifondando questa disciplina che ha governato finora i rapporti tra mondo della produzione e mondo del consumo.
Gli spiragli come detto non mancano: basta pensare all’aumento della domanda di prodotti biologici, in una fase economica di crisi come quella attuale. Gli indicatori di un nuova visione del mondo sono tanti, credo che dovremo trovare un connettivo che le saldi insieme senza spaventare e facendo massa critica».

Non ritiene che l’economia sia di fatto lo strumento grazie al quale gli uomini associati e organizzati possono ottimizzare e sfruttare le risorse disponibili senza segare il ramo sul quale sono seduti, ovvero e che quindi l’ecologia sia sovraordinata all’economia?
«Ne sono assolutamente certo. Mi permetto solo di togliere ‘sfruttare’ dalla sua affermazione e lasciare ‘ottimizzare’. La cosa che mi sorprende di più però è che anche in questo momento la garn parte degli economisti sia totalmente miope. Anche oggi (martedì, ndr) su Repubblica c’è un fondo di Tito Boeri, come sempre preciso e puntuale, ma non c’è un minimo accenno alle problematiche dell’ambiente e delle risorse naturali, come se l’ambiente fosse una variabile che non c’entra nulla e che l’economia non dipendesse dalle risorse disponibili su questa terra».

Tra le soluzioni proposte a livello internazionale e gli annunci spot italiani, non ritiene che il pericolo più grande sia quello di perpetuare nell’errore di confermare il potere egemonico delle merci dimenticandosi il prima (le materie prime che non sono finite) e il dopo (i rifiuti e la capacità, pure questa non infinita, della terra di accogliergli)?
«Mi viene in mente la battuta di Woody Allen “ma i posteri in fin dei conti cosa hanno fatto per noi?”. Ecco, i nostri politici guardano solo alla propria punta del naso. E dell’opposizione che dire? Se l’opposizione volesse oggi trovare un proprio ideale diverso dai partiti della maggioranza è proprio su questi temi che potrebbe farlo. Temi che invece considera non prioritari, non suoi. Lo sviluppo sostenibile è l’unico dna che dovrebbe avere oggi un movimento di sinistra».

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