[18/01/2008] Consumo

Della sostenibilità ambientale e sociale del ´disagio´ medio italiano

LIVORNO. L’ultimo rapporto Istat sui redditi del 2005 fotografa un’Italia spaccata sul crinale dei 1872 euro al mese: il 50% delle famiglie guadagna di più e il 50% guadagna meno. Questo è il valore mediano del reddito mentre la media reale è pari a 2331 euro. Numeri che possono voler dire tutto o niente visto che bisognerebbe indagare prima di tutto la tipologia della famiglia (cioè da quante persone è composta) e il relativo potere d’acquisto che può cambiare visibilmente in base all’area geografica.

L’Istat quindi ha diffuso anche una sorta di mappa parallela, quella del disagio. A fine 2006 il 14,6% della famiglie italiane ha dichiarato di arrivare con molta difficoltà alla fine del mese, e il 28,4% di non essere in grado di far fronte a una spesa improvvisa di 600 euro. A soffrire di più dal punto di vista economico sono i single (vivere da soli comporta una minore efficienza nei consumi e una maggiore dissipazione di risorse: a cominciare dagli imballaggi dei cibi pronti) e le famiglie molto numerose, mentre a reggere meglio sono le coppie senza figli.

Al di là delle discussioni che si potrebbero fare sui numeri, della differenza tra percezione e situazione reale, della differenza tra reddito certificato e reddito reale (l’evasione fiscale in Italia è stata stimata al 27% del Pil), il disagio senza dubbio c’è. Ma forse non viene contestualizzato a dovere. Il disagio che vivono le famiglie oggi non è il disagio che vivevano le famiglie 40 anni fa in pieno boom economico.

Basta pensare a quale era la percezione del “prestito” negli anni Settanta e qual è oggi: il 56% degli italiani vi fa ricorso e il credito al consumo pur restando al di sotto dei valori di altri Paesi europei continua a crescere sia in termini di importi che di durata. Eppure sarebbe troppo facile tirare in ballo la scusa di una deriva consumistica che porta le famiglie a indebitarsi non più soltanto per la casa (o la macchina) ma perfino per le vacanze, le cure di bellezza, il televisore al plasma. Sarebbe sbagliato bollare queste spese come bisogni non necessari, e forse si potrebbe al limite distinguere tra consumi che vengono effettivamente consumati ed acquisti puri e semplici, destinati poi a diventare rifiuti in breve tempo, senza essere consumati: ma finché la gente compra (o s’indebita per) una determinata cosa, significa che il bisogno ( vero o presunto, indotto o autoctono) c’è, e che il mercato non fa altro che rispondere a una domanda. Certo una domanda sollecitata. Con la pubblicità.

Nel primi undici mesi del 2007 gli investimenti in pubblicità in Italia hanno superato gli 8mila milioni di euro, con una crescita del 2,8% rispetto allo stesso periodo del 2006, con un boom stratosferico dell’abbigliamento (+19,5%) e altri più contenuti rialzi come telecomunicazioni (+5%) ed auto (+1,7%). Un’industria enorme quella della pubblicità, che dà lavoro a decine di migliaia di persone, spesso qualificatissime. Ma un’industria il cui unico obiettivo è far consumare di più, anche se i soldi oggi non ce li hai e domani forse. Del resto se non si fanno ripartire i consumi – dice il refrain del politico di turno, di qualsiasi parte – il Pil rischia di rallentare la sua crescita.

Questo però significa lasciare che il mercato faccia il "suo" corso. Senza che le istituzioni che dovrebbero essergli sovraordinate, nonostante tutto, abbiano la possibilità di ritrovare il proprio ruolo di indirizzo dell’economia. Che non significa imbrigliarla ma orientarla a uno sviluppo più sostenibile e sicuramente più duraturo di quello attuale. Partendo magari proprio da riconsiderare i modi della pubblicità, che oggi è più educatrice di qualsiasi altro strumento. Ma non sempre (quasi mai) educatrice responsabile e sostenibile.


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