[18/12/2008] Aria

Il quarto rapporto Ipcc, questo sconosciuto (14)

FIRENZE. In questi giorni in cui l’Italia è stata sferzata dalle fasi più intense di un reiterato maltempo, molti si sono chiesti se la perdurante fase perturbata che ci accompagna ormai da ottobre scorso sia da attribuire o meno ai cambiamenti climatici, o se sia invece da ricondurre ad un criterio di “normale eccezionalità”.

E come affermato il 13 dicembre dal climatologo Luca Mercalli al Tg1 e come abbiamo ricordato anche su greenreport lunedì scorso, la risposta più obiettiva a questa domanda non può essere che «ancora non possiamo dirlo con certezza». Ancora, cioè, la climatologia non ha compiuto progressi sufficienti per permetterci di individuare, alle nostre latitudini, un indubitabile legame tra il forte maltempo di questo autunno e i cambiamenti climatici indotti dal surriscaldamento globale.

Questo perchè anche se abbiamo enormi e attendibili archivi riguardo ai regimi pluviometrici globali e locali, stesso discorso non può essere fatto riguardo alla dinamica relativa ai cosiddetti “eventi estremi”: nel Mediterraneo non esistono studi che siano paragonabili – per sistematicità e lasso temporale di analisi – a quelli che vengono dedicati oltreoceano al regime degli uragani caraibici o ai tornado che si formano nelle pianure centrali. Studi che sarebbero invece fondamentali per individuare un effettivo trend al rialzo o meno di questi eventi nella nostra zona geografica.

Il motivo di questa diversità è probabilmente da ricercarsi nella storica, persistente presenza, nel continente nordamericano, di questi fenomeni (ben più devastanti e molto più costanti nel manifestarsi, rispetto ai temporali che vediamo alle nostre latitudini) e nelle loro caratteristiche distruttive, che hanno reso radicata negli Usa una cultura dell’analisi (e della prevenzione) meteo-climatologica, che da noi riveste un’importanza molto minore: per esempio, dati Noaa indicano che la stagione degli uragani del 2008 è stata «la decima stagione in cui si è prodotta un’attività superiore alla media negli ultimi 14 anni», e la prima stagione in cui – come già scrivemmo su greenreport il 27 novembre - «si sono formati uragani intensi (> cat. 3) in cinque mesi consecutivi, da Bertha (luglio) a Paloma (novembre)».

Riguardo alla zona climatica del nostro paese, invece, mancano appunto dati sufficienti su quegli eventi meteorici che sono da considerare “estremi”, cioè fuori dalla norma per intensità o persistenza. Sappiamo però che alle nostre latitudini le precipitazioni sono in lieve ma costante diminuizione fino almeno dalla metà del 1800, proprio a causa del surriscaldamento globale che aumenta la forza dei meccanismi di trasporto di calore dai tropici alle aree temperate (come la cosiddetta “cella di Hadley”) e conseguentemente contribuisce a “spingere” verso nord le aree di persistenza delle due principali zone altopressorie che agiscono nel Mediterraneo: l’anticiclone delle Azzorre, più fresco, e l’anticiclone della Libia (o africano), più caldo e afoso.

Altro elemento che sappiamo con certezza è che ogni Watt aggiuntivo che è introdotto nel sistema terra-acqua-atmosfera tramite emissioni dirette o indirette, e in generale ogni frazione di grado di aumento del riscaldamento globale, indipendentemente dal ruolo antropico, aumentano l’energia in gioco nel sistema. E questo ha necessariamente, come pure sappiamo, effetti in direzione dell’aumento dell’intensità e (con minore certezza) della frequenza dei cosiddetti “eventi estremi”.

A questo punto, occorre domandarsi che conseguenze possa avere (riguardo alle alluvioni che potrebbero avvenire nel nostro paese) la combinazione di piogge in diminuizione, di eventi sempre più forti (e su questo concordano in molti, al di là della scarsità di ricerche sul tema) e della crescita della temperatura. E una delle risposte possibili è: un aumento dell’impermeabilità del suolo (cioè una sua minore capacità di ritenuta idrica) e quindi un aumento del cosiddetto «run-off», cioè della quantità e velocità di scorrimento delle acque meteoriche sul terreno.

Questo dato è direttamente collegato con il rischio di danni da alluvioni, poichè un aumento del run-off corrisponde ad un aumento sia della velocità di deflusso idrico dai versanti montani (e quindi un convogliamento nei corsi d’acqua più rapido e concentrato) sia una maggiore velocità delle onde di piena stesse, rendendole più pericolose e meno prevedibili. Il problema riguarda, da questo punto di vista, soprattutto i corsi d’acqua minori, meno monitorati e mantenuti rispetto alle maggiori vie fluviali e con bacini di raccolta meno complessi: e l’abbiamo visto in questi giorni quando a Roma, passata la paura per il Tevere, molti si sono ritrovati il secondo fiume della città (l’Aniene) in fase di straripamento.

Cosa avverrà in futuro, da questo punto di vista? Secondo il quarto rapporto Ipcc, come già abbiamo annotato nella tredicesima parte della nostra rassegna, è da attendersi «un significativo aumento, in futuro, degli eventi meteorici intensi in molte regioni, incluse alcune in cui la media delle precipitazioni totali è prevista in decrescita. Il conseguente maggiore rischio di alluvioni metterà alla prova la società, le infrastrutture fisiche e la qualità dell’acqua. E’ probabile (likely, probabilità superiore al 66%) che fino al 20% della popolazione mondiale vivrà in zone dove le alluvioni saranno in potenziale aumento, al 2080».

Specificatamente, il run-off totale è previsto «con ampia attendibilità (with high confidence, cioè con attendibilità superiore all’ 80%) aumentare tra il 10 e il 40% entro metà secolo alle alte latitudini e in alcune aree tropicali umide, incluse aree popolose in est e sud-est Asia, e diminuire dal 10 al 30% su alcune aree secche alle medie latitudini e ai tropici, a causa di minori precipitazioni e di più alti tassi di evaporazione». Ma se vogliamo interpretare questo dato alla luce di quanto avvenuto in questi giorni in Italia va chiarito che esso considera anche i regimi precipitativi e quindi non suggerisce granché sull’effettivo rischio di alluvioni, perchè la prevista futura diminuizione del run-off sulla zona comprendente la penisola italiana è condizionata anche dalla prevista (e ulteriore rispetto a quanto finora avvenuto) riduzione delle precipitazioni.

Comunque, in chiusura, le previsioni probabilistiche di cui abbiamo discusso nelle scorse settimane sui futuri apporti precipitativi e sulle temperature, e quelle odierne sul run-off, possono essere incrociate per ottenere stime della futura disponibilità idrica per la popolazione. Quanto visibile nell’immagine (riferita alle stime per il 2090-2099 rispetto al periodo 1980-1999) spiega come detta disponibilità sia genericamente prevista in aumento moderato alle alte latitudini, e nell’Asia orientale e sudorientale, e sia invece probabile una forte riduzione in altre zone, tra cui il bacino del Mediterraneo (ma anche Messico, Stati uniti occidentali, zone caraibiche, Cile, Sudafrica e Australia occidentale) dove la riduzione di acqua disponibile potrebbe superare il 40%.

Va chiarito, però, che (come è anche affermato nella didascalia dell’immagine) alcuni studi indicano possibili mutamenti della disponibilità idrica «considerevolmente diversi dai risultati qui presentati». E va aggiunto anche che la relativa superficialità dei dati oggi presentati è da mettere in relazione ad un – già citato nelle scorse settimane - eccessivo focalizzarsi del quarto rapporto Ipcc su dati riferiti alla scala globale, a scapito di analisi di maggiore prospettiva regionale, che avrebbero invece un’utilità ben superiore per un’analisi dei possibili impatti dati dal surriscaldamento del sistema climatico. Cercheremo quindi nei prossimi giorni di analizzare più approfonditamente cosa potrà avvenire in futuro nelle diverse regioni del pianeta.

(14 – continua)

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