[16/02/2009] Parchi

Climate change, tutto scorre (verso i poli): nuovi studi sulle migrazioni ittiche

FIRENZE. Abbiamo visto la scorsa settimana come il ritmo di migrazione verso nord dell’avifauna (indotto in primo luogo dai cambiamenti climatici) raggiunga, negli Stati Uniti, punte di 500 km in 40 anni. Queste almeno le valutazioni dello studio «Birds and Climate Change Ecological Disruption in Motion» condotto dall’associazione Aubdon, di cui Umberto Mazzantini ha parlato su greenreport il 12 febbraio.

Allo stesso modo vi abbiamo parlato l’11 febbraio scorso del ritmo di migrazione latitudinale per le piante arboree, che secondo ricerche pubblicate su Forest ecology and management, e riportate dal National Geographic raggiunge un valore massimo di circa 100 km per ogni secolo. Sempre il National Geographic aveva peraltro riportato nel giugno 2008 studi riguardanti l’attuale ritmo di migrazione altitudinale delle piante lungo i costoni delle montagne, stimato in «circa tre metri per ogni anno».

Facendo un conto approssimativo (tenendo presente che parliamo di valori-limite e non di medie, e che gli studi sono riferiti al solo continente nordamericano), possiamo allora stimare una velocità di migrazione latitudinale che, nell’attuale fase di surriscaldamento del sistema climatico, raggiunge 1 km/anno per quanto riguarda i popolamenti forestali, e i 12-13 km/anno per quanto attiene alle specie avicole.

Un altro studio analogo, ma riguardante stavolta la dinamica delle specie ittiche in varie parti del globo, è stato riportato nei giorni scorsi dall’agenzia Reuters. E la loro velocità di migrazione latitudinale in risposta ai cambiamenti climatici è stimata essere molto maggiore (ovviamente) di quella degli esemplari arborei, e nettamente inferiore (circa un terzo) di quella delle popolazioni che compongono l’avifauna: secondo William Cheung della British Columbia university, coordinatore dello studio, in futuro vedremo «una considerevole ridistribuzione di molte specie ittiche a causa del Gw. In media, i pesci muteranno la loro distribuzione di più di 40 km per decade nei prossimi 50 anni», cioè circa 4 km/anno.

Secondo Cheung, la ricerca presentata è la prima nel suo genere a elaborare scenari di impatto climatico per un numero così alto di specie diverse (sono infatti stati osservati i movimenti di 1066 specie, comprendenti 836 varietà ittiche - aringhe, tonni, squali – ma anche 230 tra gamberi, granchi e aragoste).

Le conseguenze riguardo alla stabilità delle popolazioni animali e alla biodiversità saranno molto pesanti: riguardo all’Europa, è stato stimato che le popolazioni di merluzzo del mare del Nord subirebbero, con questi tassi di migrazione, riduzioni del 20%. In termini numerici questo valore sarebbe solo parzialmente controbilanciato da una “risalita” verso lo stesso mare del Nord di pesci con areale più meridionale, nell’ordine di un 10% di aumento. Riguardo agli Usa, invece, è stimato che le popolazioni di merluzzo della costa orientale potrebbero ridursi della metà entro il 2050.

Chiaramente la reazione delle specie ai mutamenti climatici non è uniforme: alcune, più adattabili, semplicemente spostano il loro areale verso i poli, con perdite che – se non peggiorate da eccessivi tassi di inquinamento dell’acqua e di prelievo per la pesca – restano limitate soprattutto in quantità, ma anche in qualità del popolamento ittico. Altre specie, ad esempio quelle che necessitano di acque particolarmente fredde, sono invece destinate all’estinzione, come è probabile che possa avvenire riguardo a popolazioni di cernia striata (Trematomus hansoni) dell’Antartico o di aragosta di st. Paul (Jasus paulensis) degli oceani meridionali.

Dal punto di vista dell’economia della pesca va aggiunto che, secondo Chaung, non dovrebbe cambiare in modo significativo la quantità di prelievi della fauna acquatica: «si tratta più che altro di una ridistribuzione delle catture», ha sostenuto, chiarendo che se nelle regioni tropicali è attesa una diminuizione del pescato, destino opposto attenderebbe zone più a nord, come Alaska e Groenlandia.

Ci sono però delle variabili che, se prese in considerazione, chiariscono come non ci sia da lasciarsi andare all’ottimismo: anzitutto è lo stesso coordinatore dello studio a chiarire come le nuove (e più settentrionali) rotte che i pescatori dovranno percorrere saranno da essi in parte sconosciute, per esempio riguardo al gioco delle correnti e alla presenza di scogli affioranti. E’ da attendersi quindi, se l’adattamento dovrà essere troppo veloce (ad esempio a causa di cambiamenti climatici troppo repentini), un aumento degli incidenti e una maggiore spesa economica per attrezzare le spedizioni.

Inoltre, non è sicuro che la stabilità numerica e la tenuta in termini di biodiversità delle popolazioni acquatiche nel corso delle migrazioni siano garantite: ciò avverrebbe in assenza di quei condizionamenti di origine antropica (inquinamento, prelievo, creazione di ostacoli artificiali alla libera motilità delle popolazioni) che invece ci sono e sono destinati ad aumentare significativamente nel corso dei prossimi anni, specie per quanto attiene a zone dove oggi il prelievo non è smodato, come alcuni paesi in via di sviluppo, ma anche entrambe le regioni polari.

Infine, va considerato come il diverso ritmo di migrazione delle specie implichi la creazione di vari elementi di squilibrio all’interno della catena alimentare, con conseguenze di tipo feed-back che non sono prevedibili a lungo termine. Sicuramente, nel novero delle specie viventi, le popolazioni acquatiche sono tra quelle che, grazie alle ampie possibilità di spostamento offerte dall’elemento in cui vivono, godono della maggiore possibilità di adattamento ai cambiamenti climatici, cioè hanno una maggiore elasticità e possono reagire velocemente con fenomeni migratori. Ma anche per quanto riguarda le specie acquatiche (e quella componente della nostra economia che si basa sul loro prelievo) occorre tenere presente che, mentre cambiamenti climatici lenti e progressivi creano problematiche di non poco conto ma lasciano anche lo spazio per una reazione adattativa, la stessa possibilità di reazione non potrebbe aver luogo davanti a cambiamenti veloci e improvvisi, proprio quelli che – secondo le analisi più accreditate – potrebbero aggredire in futuro il pianeta se il surriscaldamento dovesse proseguire ai tassi attuali.

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