[07/05/2009] Parchi

I grandi predatori marini soffrono la densità umana e anche la piccola pesca costiera

LIVORNO. Plos ONE pubblica la ricerca “Fishery-Independent Data Reveal Negative Effect of Human Population Density on Caribbean Predatory Fish Communities” di Christopher D. Stallings, del dipartimento di zoologia dell’Oregon State university, che indaga sull’attuale stato dei pesci predatori nel Mar dei Caraibi e degli effetti che ha su di loro la pesca. Si tratta di dati di vitale importanza per la gestione della pesca e per capire l’impatto delle attività antropiche sulla vita marina,ma che sono spesso insufficienti su scala regionale per poter valutare gli effetti dello sfruttamento in ecosistemi delicati come le barriere coralline di Paesi in via di sviluppo.

«In particolare, questo studio analizza la presenza e la diversità di pesci predatori della barriera rispetto al gradiente di densità di popolazione umana – spiega Stallings - In tutta la regione, come aumenta la densità di popolazione umana, la presenza di pesci di grande taglia diminuisce, e nelle comunità di pesci diventano dominanti poche specie di piccola taglia».

In alcune aree densamente popolate dei Caraibi diverse specie di grandi pesci sono completamente scomparse, con estinzioni locali, «Questi risultati sono di fondamentale importanza per colmare una lacuna nella nostra conoscenza degli effetti sull’ecosistema della pesca artigianale nei Paesi in via di sviluppo – spiega lo studio – e per fornire un supporto per approcci molteplici alla raccolta di dati che non sono comunemente disponibili»

E’ noto che l’impatto antropico ha modificato notevolmente le comunità di pesci predatori in tutto il mondo, soprattutto attraverso la pesca industriale e ricreativa, fino ad ora gli studi del settore avevano fondato le loro conclusioni su un ampio database che riguardava soprattutto la pesca svolta da nazioni sviluppate. Però, le statistiche di pesca non sono facilmente disponibili nei Paesi in via di sviluppo dove si esercita localmente la pesca artigianale di sussistenza o su piccola scala commerciale. «Nonostante il problema della carenza di dati – dice Stallings, - rimane indispensabile valutare gli effetti a livello regionale dello sfruttamento dei pesci predatori sulle popolazioni e di capire se esistono effetti indiretti delle attività umane sulle comunità a cui appartengono (ad esempio, la “dominance shifts”), al fine di attuare una gestione e strategie di conservazione orientate verso approcci basati sugli ecosistemi».

La pesca artigianale è la fonte primaria di approvvigionamento alimentare per milioni di persone in diversi Paesi in via di sviluppo ed è a fonte primaria dello sfruttamento delle risorse negli habitat delle barriere corallina. Nei Caraibi la pesca esisteva già molto prima dell’arrivo dei colonizzatori europei, ma negli ultimi 200 anni ha avuto rese sempre più ridotte in coincidenza con l’aumento della popolazione nella regione.

Così come la pesca industriale e sportiva nei Paesi sviluppati, la pesca artigianale punta a prede di grandi dimensioni, a pesci di alto livello trofico, facendo in modo che un numero e una densità maggiore di pescatori si traduca nella cattura di specie più grandi.

Infatti, lo studio evidenzia che le popolazioni di grandi pesci sono diventate sempre più ridotte nelle aree più densamente abitate dei Caraibi, ad esempio in Giamaica. Fino ad ora però gli studi si basavano su dati sulla pesca incompleti e non sempre disponibili nelle molte isole-stato dei Caraibi, i ricercatori hanno utilizzato dati studi condotti su scale spaziali relativamente piccole o aneddotica e informazioni storiche, così, pur presentando già un quadro preoccupante, gli effetti potenziali e indiretti su tutta la regione restavano ancora in gran parte da analizzare e determinare.

«Per affrontare questi problemi su scala più ampia – spiega Stallings - ho usato una forma accessibile al pubblico, il fisheries-independent database, per fornire su una prima ampia scala l´analisi quantitativa della struttura della comunità dei pesci predatori del reef corallino in tutta la regione dei Grandi Caraibi. Il database consiste in oltre 38.000 presenza/assenza con indagini condotte in 22 Stati insulari e continentali da scienziati locali (ad esempio, con la formazione di volontari subacquei), una tecnica che è stata ampiamente utilizzata dagli ecologisti terrestri (ad esempio il Breeding Bird Survey), ma in gran parte ignorata dai loro colleghi marini. Questi sforzi comuni, in grado di coprire grandi aree geografiche e produrre campioni di dimensioni di ordine di grandezza maggiore rispetto ai tradizionali sforzi fatti sia da singoli o da piccoli gruppi di scienziati, colmano in modo efficace le lacune di dati sulla pesca che al momento non sono disponibili».

Le analisi suggeriscono che la densità della popolazione umana è fortemente e negativamente correlata sia alla ricchezza e sia alla presenza totale delle specie (un surrogato dell’abbondanza) dei pesci predatori della barriera corallina dei Caraibi. I grandi predatori diventano rari o assenti nei luoghi ad alta presenza umana e vengono sostituiti da piccoli predatori ed è chiaro, anche analizzando geograficamente il fenomeno, che l’attività umana che influenza di più la composizione della comunità di predatori è la pesca.

Le grandi cernie, i dentici, gli squali che una volta erano abbondanti in tutti i Caraibi, comprese le barriere coralline delle Grandi e Piccole Antille dove molte specie prese in esame dallo studio si sono localmente estinte. Il confronto tra isole abitate e disabitate evidenzia ancora di più gli effetti delle attività antropiche: nelle disabitate Isla de Mona e Navassa Island, riserve naturali vicine alle densamente abitate Porto Rico e Giamaica, che pure sono state storicamente interessate da attività di pesca e da altri effetti antropici, l’impatto è inferiore a quello nelle vicine isole abitate: le presenze di grandi predatori, come squali, barracuda, cernie, sono due o tre volte più che nelle altre isole disabitate adiacenti a quelle densamente abitate. «La più ampia presenza di questi predatori all´interno di regioni in cui sono altrimenti rari o del tutto assenti indica che sono gli effetti di origine antropica, non la latitudine, a limitare la corposa presenza di questi grandi pesci – dice Stallings - Il rapporto tra densità della popolazione umana e comunità ecologica è stato studiato molto più estensivamente nei sistemi terrestri che quelli marini. Tuttavia, numerosi studi recenti nelle Line Islands e nelle isole hawaiane hanno trovato un’abbondanza maggiore di biomassa e dei grandi pesci predatori in luoghi a bassa densità di popolazione umana rispetto a quelli che sono densamente popolati. Risultati simili sono stati riscontrati nel presente studio, con i grandi predatori che diventano sempre più rari o estinti a livello locale con l´aumentare la densità di popolazione umana».

Le attività umane possono influire negativamente sulle popolazioni e le comunità dei pesci della barriera corallina, direttamente attraverso la cattura o indirettamente, attraverso la perdita di habitat. In tutto il mondo è stato ben documentato il degrado delle barriere coralline ed anche se gli effetti del cambiamento climatico globale (sbiancamento, acidificazione e malattie) sono stati individuati come i principali vettori, effetti locali connessi alla densità di popolazione umana, come la pesca distruttiva e l’inquinamento, esacerbano la distruzione dell’habitat corallino. Così dalla diminuzione della copertura di coralli può risultare un calo di abbondanza, biomassa, e biodiversità di pesci della barriera corallina. Lo studio rivela però un preoccupante impatto dovuto alla piccola pesca, fino ad ora considerata “benigna”, se questa diventa diffusa a causa dell’aumento della popolazione e viene praticata senza criteri di vera sostenibilità.

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