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La diplomazia targata Meloni regala a Trump 10 miliardi di euro per fossili e nucleare, mentre anche Confindustria lancia l’allarme: «Con dazi e incertezza -0,3% del Pil italiano nel 2025-2026»

 |  Editoriale

Dopo la visita a Washington di giovedì della premier Meloni dal presidente Trump, e dopo aver accolto il giorno seguente il vice JD Vance a Palazzo Chigi, la leader italiana ha incassato un sacco di complimenti – è noto l’allineamento ideologico tra Meloni e il tycoon statunitense, entrambi esponenti dell’internazionale di estrema destra – ma nessun guadagno concreto per l’Ue o il proprio Paese.

Anzi, le poche cifre emerse dal dialogo sono incentrate sugli investimenti nell’energia statunitense (leggasi import di combustibili fossili, in particolare Gnl, ma anche risorse in ambito nucleare), con Meloni a dichiarare che l’Italia è pronta a mettere sul piatto 10 miliardi di euro. In cambio di cosa, non è chiaro. In compenso, ieri è toccato al Centro studi di Confindustria (Csc) mettere in guardia sui rischi che i dazi di Trump comportano per l’economia italiana.

Il presidente Trump ha sospeso fino al 9 luglio i dazi “reciproci” imposti a un ampio gruppo di paesi (al 20% per l’Ue). Restano però in vigore però le tariffe del 10%, dal 2 aprile, su gran parte degli acquisti USA dall’estero. Sono esclusi, per il momento, alcuni prodotti strategici (farmaceutici, rame e semiconduttori, alcuni minerali, energia) e parte dei beni da Canada e Messico. Viceversa, sono colpiti da dazi al 25% tutti gli acquisti Usa di acciaio e alluminio e quelli di autoveicoli e componenti (dal 3 maggio). Anche le barriere tra Stati Uniti e Cina hanno raggiunto livelli record: 145% sui beni cinesi, 125% su quelli americani. Aumentano anche le barriere non tariffarie: la Cina ha interrotto l’export di terre rare e l’import di Boeing. Nel complesso, l’aumento dei dazi è stimato pari a circa il 28% sull’import Usa, maggiore di quello dello Smoot-Hawley Act del 1930 (dal 13% al 20%), che generò una guerra commerciale mondiale e inasprì la Grande depressione.

I dazi sono una tassa applicata su una parte consistente degli acquisti Usa di beni di consumo, intermedi e di investimento (l’import di beni è pari all’11,3% del Pil e al 38,3% della produzione industriale): spingono in alto i prezzi e frenano la domanda interna. Secondo Confindustria l’incertezza sulle politiche Usa, ai massimi, riduce la fiducia degli operatori e genera volatilità sui mercati finanziari.

Un andamento reso evidente anche dalla quotazione dell’oro, bene rifugio per eccellenza, è cresciuta del 21,7% finora nel 2025 rispetto al 2024. Inoltre il dollaro si è deprezzato del 5,6% sull’euro in metà aprile (da 1,08 a 1,14), amplificando l’impatto dell’inflazione importata.

«Il manifatturiero genera la quasi totalità dell’export italiano negli Usa, pari a più di un decimo delle vendite manifatturiere all’estero (10,8%)», e secondo stime confindustriali le vendite negli Usa attivano, direttamente e indirettamente, quasi il 7% della produzione manifatturiera italiana (circa 90 miliardi di euro). I settori più esposti sono farmaceutico, autoveicoli, macchinari.

«In base a una simulazione Csc – concludono da Confindustria – dazi e incertezza causeranno una minore crescita di -0,3% del Pil italiano nel 2025-2026, a causa di una più bassa dinamica dell’export di beni (-1,2%) e degli investimenti in macchinari (-0,4%). È da evitare una ritorsione tariffaria Ue sugli acquisti dagli Usa, che impatterebbe sui prezzi e sulla fiducia di famiglie e imprese, con un’ulteriore frenata del Pil. Cruciale, invece, concludere nuovi accordi commerciali Ue con altri importanti partner economici (Mercosur, India)».

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Luca Aterini

Luca Aterini, toscano, nasce settimino il 1 dicembre 1988. Non ha particolari talenti ma, come Einstein, si dichiara solo appassionatamente curioso: nel suo caso non è una battuta di spirito. Nell’infanzia non disegna, ma scarabocchia su fogli bianchi un’infinità di mappe del tesoro; fonda il Club della Natura, e prosegue il suo impegno studiando Scienze per la pace. Scrive da sempre e dal 2010 per greenreport, di cui è oggi caporedattore.