
Water Wars. 343 guerre dimenticate con l’acqua come causa, scopo, obiettivo. Dal Kashmir all’Ucraina, dall’Egitto al Sudan, dagli Usa al Messico: clima e siccità aumentano i conflitti, anche tra Stati nucleari come India e Pakistan

Correva il 2460 avanti Cristo quando, in Mesopotamia, la culla delle prime civiltà, iniziava la madre di tutte le guerre dell’acqua. L’obiettivo del tribale idro-conflitto tra gli eserciti schierati dalle due grandi città-Stato Sumere, Umma e Lagash, era la conquista delle acque del fiume Tigri. Dopo un secolo di schermaglie e inutili trattative, dopo furiosi combattimenti durati tre giorni, Lagash e il suo re Eannatum sconfissero Umma e celebrarono la vittoria erigendo a perenne ricordo la “Stele degli avvoltoi” in pietra calcarea, oggi conservata in frammenti nel Louvre di Parigi con scene scolpite di avvoltoi che volteggiano su corpi senza vita di soldati nemici, reti a grosse maglie nelle quasi sono catturati i prigionieri, eserciti in marcia, divinità. Eannatum per cancellare ogni ipotesi di rivalsa nemica ordinò di scavare larghi canali irrigui nei quali deviarono l’acqua del Tigri verso le loro immense distese agricole e le piscine e le fontane della sua città-Stato, assetando e seccando i campi della città rivale.
Da allora, per il possesso dell’acqua l’umanità ha combattuto migliaia di guerre, ha aperto altrettanti negoziati e firmato spesso inutili trattati di convivenza e condivisione. E oggi? Siamo sempre lì, le water wars stanno segnando una impressionante escalation sulla scena globale. Non è servito a nulla nel 4485 anni dopo siamo qui a farei conti con il monito inascoltato del vicepresidente della Banca Mondiale Ismail Serageldin nel tempestoso 2015 ai grandi della Terra: “Se le guerre del XX secolo sono state combattute per il petrolio, quelle del XXI secolo avranno come oggetto del contendere l’acqua”. Previsione azzeccata, e rafforzata da una water diplomacy anche oggi in panne su troppi fronti con negoziati, trattati, accordi, patti e impegni spesso siglati ma non mantenuti, meccanismi di risoluzione di storiche controversie che impegnano all’infinito corti arbitrali e schiere di esperti neutrali impotenti di fronte al crudele elenco di sempre nuovi conflitti per l’acqua nati anche per gli effetti dei cambiamenti climatici con atroci fasi di siccità sempre più prolungate, da volontà predatorie e sopraffazioni, da sabotaggi e manomissioni di fonti idriche a scopo militare per assetare Stati confinanti, da “furti” d’acqua attraverso deviazioni e sbarramenti di fiumi, dal super-sfruttamento di risorse idriche, da arcaici conflitti etnici o di religione che si aggiungono alle crisi idriche costringendo popolazioni poverissime a ondate migratorie.
E se tra il 2000 e il 2009 sul mappamondo si contavano “solo” 94 conflitti per l’acqua, nel decennio successivo 2010-20 erano già saliti a 263, e oggi siamo a 343, indicati sulle mappe dei ricercatori del Pacific Institute, il think tank globale water conflict chronology. Gli effetti del clima ha peggiorato il clima provocando una escalation di conflittualità per il controllo di fiumi, pozzi, dighe, impianti idrici.Fiume Tigri
Se la prima guerra dell’acqua ha avuto come scenario l’antica Mesopotamia, l’ultima si combatte su uno scenario che ha dell’incredibile: sui ghiacci del Karakoram, lungo la catena dell’Himalaya contesa da India e Pakistan dove un angosciante alert mondiale è scattato la scorsa settimana dopo raid aerei e attacchi missilistici indiani sul territorio del Kashmir che hanno lasciato sul terreno 34 vittime e la devastazione della base aerea di Rawalpindi, l’antica città alle porte della capitale Islamabad, a pochi chilometri dal centro di controllo delle 170 testate atomiche pakistane. Un rischio pazzesco! Le moderne guerre indo-pakistane sono da allarme rosso essendo entrambi i Paesi potenze nucleari: l’India ha sperimentato la sua prima bomba atomica nel 1974 e il Pakistan nel 1998 e entrambe possiedono circa 170 ordigni nucleari. Non a caso l’intero mondo è intervenuto per fermare l’escalation. “Abbiamo fermato un conflitto nucleare. Penso che avrebbe potuto essere una brutta guerra, con la morte di milioni di persone”, sono state le parole di sollievo di un Donald Trump molto preoccupato.
Se l’innesco dello scontro per l’India è stato l’attentato compiuto nel Kashmir da terroristi islamici contro turisti con 26 vittime, la ritorsione è stata la coda velenosa di tensioni risalenti all’indipendenza del 1947 con la separazione della “Madre India” allora colonia del Regno Unito, stabilita su base religiosa con i musulmani in Pakistan e gli hindu o induisti in India e regioni come il Kashmir rivendicate da entrambi i Paesi in un conflitto atroce che finora ha causato circa 70 mila morti.
E l’acqua? Da sempre è motivo di scontri tribali in epoca moderna. E dal 1984, indiani e pakistani si fronteggiano a mano armata per la conquista del ghiacciaio di Siachen, l’area glaciale più estesa del Karakoram e il secondo ghiacciaio non polare più grande del mondo trasformato da quarant’anni in zona di guerra inaccessibile a scienziati e glaciologi dopo l’operazione militare indiana “Meghdoot” che vale “divino messaggero delle nuvole”, con l’occupazione e il blocco dei tre passi di Sia La, Bilafond La e Gyong La sulle montagne Saltoro, nella parte settentrionale del Kashmir. L’esercito pachistano difende le valli ghiacciate ma ha dovuto cedere circa 2.500 km2 di terreni glaciali all’India.
Gange, India
Nel 2003, i due paesi firmarono un finto cessate-il-fuoco e i soldati presidiano trincee e caserme sui massici glaciali come se fossero le armate del castello di “Grande Inverno” della serie tv Trono di Spade, vivendo in condizioni impossibili e a temperature anche a meno 50 gradi sulla catena Est del Karakorum, ad altezze che variano da 5.723 a 3.620 metri. Centinaia di militari sono stati rimpatriati per danni fisici e psicologici permanenti da una delle più insensate e paradossali trincee di guerra sull’Actual Ground Position Line dove va in scena la più inutile guerra di posizione alla maggiore altitudine nel mondo.
Ovviamente anche il ghiacciaio Siachen è oggi in scioglimento e rilascia acqua, e ogni tanto stacca valanghe e l’ultima ha ucciso 135 persone, tra cui 124 soldati pachistani. Ma al riscaldamento globale dal 1984 si sono aggiunti impatti di scavi di strade sui ghiacci, traiettorie di elicotteri e aerei a bassa quota, tubazioni che trasportano cherosene che tagliano il ghiaccio, passaggi per trasporti, enormi quantità di rifiuti, scorie belliche di scontri e esplosioni prodotte dagli avamposti militari che rendono imprevedibile il ritmo di scioglimento dei ghiacciai himalayani. Ma gli avamposti permanenti a oltre 6000 metri di quota restano nel disastro ambientale dell’accelerazione dello scioglimento dei ghiacciai himalayani che non solo termoregolano il clima globale e nel subcontinente indiano ma sono fonti primarie di acqua dolce.
Il Kashmir, infatti, è conteso anche perché custodisce le sorgenti dei fiumi indo-pakistani che garantiscono la vita e oltre il 90% dell’irrigazione dei due Stati. E a valle dei ghiacciai, al centro del conflitto c’è anche la guerra per il possesso del grande fiume Indo al quale devono la sopravvivenza 300 milioni di persone nella Repubblica Islamica del Pakistan - quinto Stato più popoloso al mondo con 252 milioni di abitanti - e nell’India - lo Stato più popoloso del Pianeta con oltre 1.4 miliardi di abitanti - che devono tutto al fiume che dall’altopiano tibetano percorre 3.200 km e sfocia nel Mar Arabico attraversando il suo bacino fluviale a cavallo tra i due Stati e in parte del Tibet e Afghanistan, trasportando acqua in territori per oltre il 92% sono aridi o semi-aridi, permettendo a oltre metà popolazione pakistana l’agricoltura, e consentendo al Punjab indiano oltre il 20% di produzione del grano indiano. Lo storico Trattato delle Acque dell’Indo, l’Indus Waters Treaty, mediato dalla Banca Mondiale e firmato a Karachi il 19 settembre 1960, conferì al Pakistan diritti esclusivi sui 3 fiumi occidentali del sistema fluviale dell’Indo - Jhelum, Chenab e Indus -, lasciando all’India il controllo dei 3 fiumi orientali Sutlej, Ravi e Beas. Ma già la decisione indiana di tre decenni fa di costruire la grande diga di Shahpur-Kandi sul fiume Ravi, l’affluente dell’Indo che scorre nel Kashmir tra i due Paesi, fu presa come un feroce atto di guerra dal Pakistan. E oggi che la diga è stata completata, riempita dal febbraio 2024, e le sue acque a valle dell’altra diga di Ranjit Sagar, irrigano oltre 32.000 ettari di terre agricole nei distretti di Kathua e Samba nel Jammu e Kashmir, e alimentano due centrali idroelettriche con capacità totale di 206 MW, l’India ha interrotto il flusso d’acqua del Ravi verso il Pakistan vantando diritti stabiliti dal Trattato delle Acque dell’Indo del 1960, che assegna all’India l’uso esclusivo delle acque dei fiumi Ravi, Beas e Sutlej. Altre dighe avviate da Nuova Delhi - Kishenganga e Ratle nello stato indiano di Jammu e Kashmir - potrebbero tagliare altra acqua al Pakistan dal 2026. L’India ha poi un fronte aperto contro il Bangladesh per il controllo delle acque del Gange e del Brahmaputra. E il Pakistan vive nell’incubo di impatti distruttivi sulla sua agricoltura.
Catena montuosa del Karakorum
Che la risorsa acqua sia rimasta dall’antichità come causa, arma e obiettivo bellico è un dato di fatto. Nel 1972 gli strateghi del Pentagono pianificarono il bombardamento di sbarramenti e invasi che regolavano l’acqua nelle risaie nord-vietnamite allagandole. Nella prima guerra del Golfo del 1991, gli Usa fecero costruire enormi terrapieni deviandoci le acque del Tigri e dell’Eufrate per assetare e stanare i ribelli Sciiti, e nel 2003 indicarono la diga di Haditha alle truppe che invasero l’Iraq come primi obiettivi da mettere in sicurezza per impedire che Saddam Hussein la facesse saltare in aria causando una catastrofica alluvione e bloccasse la produzione di un terzo dell’elettricità irakena. Nell’agosto 2014 gli Usa intervennero nella riconquista della gigantesca diga di Mosul sul Tigri, la più grande diga dell'Iraq che rifornisce anche il Kurdistan, nelle durissime battaglie con soldati iracheni e kurdi contro l'Isis che l’aveva occupata, e poi nella riconquista della diga di Fallujah che regola il flusso dell'Eufrate a nord-ovest di Baghdad. L’8 settembre del 2015 ripresero il controllo della diga di Haditha fermando con raid aerei i miliziani jihadisti dell’Isis che avanzavano verso il grande sbarramento sull’Eufrate. Se l’avessero conquistata, i jihadisti avrebbero avuto fra le mani un’arma di guerra potenzialmente devastante.
Diga di Mosul, fiume Tigri
Togliere acqua ai nemici è la strategia difensiva adottata anche dall’Ucraina dopo il 20 febbraio del 2014, l’inizio dell’invasione Russa nella Crimea, la penisola quasi circondata dal Mar Nero e povera di corsi d’acqua e con scarse risorse idriche dove l’acqua veniva garantita per usi potabili e per l’irrigazione dall’impressionante Canale della Crimea Settentrionale lungo ben 400 km costruito negli anni ‘60 dell’era sovietica, con acqua prelevata dal fiume Dnepr coprendo l’85% dei fabbisogni idrici. Per contrastare l’esercito di Putin, governo ucraino fece sbarrare il canale idrico con uno sbarramento provvisorio nella zona di Nova Kakhovka, riducendo il flusso dell’acqua verso le campagne del territorio occupato facendo crollare le superfici agricole utilizzabili da 130.000 ettari ad appena 14.000. Fu garantita la sola acqua per i bisogni primari dei cittadini, e l’operazione-sbarramento non venne considerata come una violazione dei diritti umani. Quando la Russia, nel 2022, prese il controllo dello sbarramento, lo distrusse ripristinando il flusso dell’acqua verso la Crimea. Le delegazioni russe e ucraine giunte a Istanbul per i negoziati diretti avranno anche l’acqua al centro
Anche la rivolta siriana iniziata con proteste senza precedenti contro il Presidente Bashar al-Assad nel 2011, poi trasformato in conflitto armato con milioni di vittime, rifugiati e sfollati, oltre lo scontro etnico, religioso e di potere, aveva al centro anche l’acqua. Fu provocata anche dalla siccità che distrusse i raccolti e fece emigrare verso le città un milione e mezzo di persone, e anche quella fu la miccia delle proteste contro il regime, poi egemonizzate dallo Stato islamico e da gruppi jihadisti.
Ponte sul Canale della Crimea settentrionale nei pressi del villaggio di Sofievki
Anche l’acqua del fiume Giordano, condiviso tra Israele, Giordania, Siria, Libano, Cisgiordania e sfruttato soprattutto da Israele, è presente in ogni trattativa ed è una delle chiavi dell’insuccesso di ogni intesa tra Stati che si contendono il fiume.
L’accesso all’acqua innesca conflitti a non finire e oggi più che mai intorno al sistema fluviale del Mekong, che attraversa il Sud-Est asiatico, Cina, Laos, Myanmar, Vietnam, Cambogia e Thailandia. È vitale anche per l’agricoltura, ma la scelta della Cina che costruirà altre 11 dighe entro il 2030 per produrre energia idroelettrica è considerata una minaccia alla sicurezza alimentare di 60 milioni di persone a valle del fiume anche per la riduzione della pesca nel bacino inferiore del Mekong che garantisce ogni anno 2,3 milioni di tonnellate di pesci d’acqua dolce. Le dighe tratterrebbero oltre 12 trilioni di litri d’acqua facendo crollare la produzione ittica di 900.000 tonnellate all’anno.
Fiume Mekong, Vietnam
Il Nilo è un altro punto caldo. Attraversa 11 Paesi sfociando nel Mediterraneo. L’Egitto, che dipende dal fiume dal quale preleva oltre il 90% dell’acqua dolce per usi civili, l’industria e l’agricoltura, ha in corso uno scontro con l’Etiopia sul Nilo Azzurro, il più importante affluente. L’Etiopia è un poverissimo Stato in permanente allarme siccità e carestia con circa 130 milioni di abitanti, e spera nella “Grande diga della Rinascita”, progettata una decina di anni fa e costruita dall’Italiana Salini-Impregilo per conto dell’Ethiopian Electric Power, nella regione di Benishangul-Gumaz a circa 500 Km a nord ovest di Addis Abeba. È la diga più grande d’Africa, con sbarramento di 1.800 metri, altezza di 170, un bacino idrico con superficie di 1.875km2 per un volume di 74 miliardi di m3 di acqua, con 2 centrali idroelettriche per una produzione di 15.000 Gwh/anno. Contro la costruzione, decisa dal governo di Addis-Abeba, con un investimento da 5 miliardi di dollari anche per risolvere anche i deficit energetici, protesta ’Egitto che trae l’85% del suo fabbisogno idrico dal Nilo Blu proveniente dall’Etiopia, deviato verso la diga. Ha contestato il riempimento “unilaterale” del bacino come “illegale” anche quando, nell’ottobre 2024, il primo ministro etiope Abiy Ahmed aveva annunciato il completamento della diga. E la situazione rimane in stallo, con forti tensioni tra i Paesi.
L’Egitto ha un fronte aperto anche contro il Sudan per il controllo del Nilo. In realtà, firmarono un trattato di gestione nel lontano 1959 ma creando tensioni con gli altri 10 Stati africani bagnati dal fiume più lungo del mondo, a partire dall'Etiopia e dall'Uganda, aride e assetate.
Fiume Nilo, Egitto
Nell’antica fertile Mesopotamia, “terra tra due fiumi”, il sistema del Tigri e dell’Eufrate domina da sempre la vitale politica idrica in un bacino con 880.000 km2 che comprende Iraq (46% del sistema fluviale), Turchia (22%), %), Iran (19%), Siria (11, Arabia Saudita (1,9%) e Giordania (0,03%). Le sorgenti del Tigri e dell'Eufrate nascono in territorio turco, e i turchi hanno sempre opposto diritti “padronali” e progettato e costruito vasti sbarramenti con dighe per lo sviluppo del Paese riducendo però il flusso a valle. La costruzione della diga turca di Ilisu che sbarra il Tigri dal 2020 scatena tensioni con Iraq e Siria dal 2007 fin dalla presentazione del Progetto “Anatolia Sud-Orientale” che include 22 dighe e 19 centrali idroelettriche lungo il Tigri e l’Eufrate ai bordi dei confini turchi con Siria e Iraq. Le dighe avevano già ridotto dell’80% l’approvvigionamento idrico dell’Iraq lungo i due fiumi con desertificazioni di terreni un tempo agricoli e di habitat naturali. Nel maggio 2020, l’Iraq ha chiesto la garanzia di un flusso minimo mensile per gli agricoltori iracheni. Il Memorandum d’intesa nel 2021 impegnava la Turchia a fornire all’Iraq una “quota equa di acqua” ma servono accordi più vincolanti e duraturi, e il livello del Tigri si è abbassato in Iraq del 60% sul 2021. Il 22 aprile 2024, quando il presidente turco Erdogan arrivò a Bagdad visita ufficiale, la prima questione posta è stata la gestione dell’acqua. La Turchia è il principale partner commerciale regionale dell’Iraq ma le tensioni restano.
Diga di Ilisu, Turchia
Altro giro del Pianeta, ed eccoci al confine tra Stati Uniti e Messico dove si lotta per i fiumi e in particolare per il Rio Grande e il Colorado.
L’immensa diga di Hoover è tra le opere ingegneristiche più colossali della storia, e sbarra tra le pareti di roccia del Black Canyon sul confine tra Arizona e Nevada, dal 1936 il corso del Colorado, e fa girar a palla 17 turbine in grado di produrre 4,2 miliardi di kWh all’anno garantendo elettricità e acqua anche alla desertica California. Con i suoi affluenti fornisce acqua a 40 milioni di persone in 7 Stati e oltreconfine anche in Messico a grandi aree urbane come Los Angeles, Las Vegas, Phoenix e Tucson, a 22 tribù indiane, all'irrigazione di 5,5 milioni di acri di terra quanto l'intera Emilia Romagna, a 7 riserve di fauna selvatica e a 11 parchi naturali.
Se i 7 Stati Usa - Colorado, Wyoming, New Mexico e Utah dell'alto corso e Arizona, Nevada e California per il basso corso - bevono le acque del fiume, le siccità ricorrenti spingono le aziende agricole a pompare acqua dai pozzi ma con il risultato che in California i terreni in alcuni punti cedono per subsidenza come nella San Joaquin Valley. Gli Usa vorrebbero chiudere i rubinetti al Messico in nome dell’egemonia trumpiana. La piattaforma Google è stata però già citata in giudizio da Claudia Sheinbaum, la Presidente del Messico, per aver cambiato il Golfo del Messico in “Golfo d’America” sulle sue mappe come immagina Trump, e denuncia contro gli Stati Uniti per l'uso eccessivo dell’acqua del fiume e l'incapacità di rispettare gli accordi internazionali sull’utilizzo delle acque. Se Trump accusa i messicani di esportare droga e far passare clandestini e di “rubare le risorse idriche al Texas” come ha scritto in un post su Truth Social accusandoli di violazione di un accordo di 81 anni fa sulla condivisione delle risorse idriche, i messicani ribattono che sulla base al trattato in cicli di 5 anni gli Stati Uniti devono inviare al Messico 2 miliardi di m3 d’acqua dell’altro fiume Colorado che scorre in Texas vicino Houston. A sua volta il Messico deve inviare dal Rio Grande 432 milioni di m3 verso gli Stati Uniti attraverso un sistema di bacini artificiali collegati. E se la Commissione Internazionale per i Confini e le Acque, negli ultimi 5 anni ha rilevato che il Messico ha fornito meno del 30% dell’acqua prevista, la presidente messicana, ricercatrice e tenace ambientalista con un PHD dell’Università di Berkley in ingegneria energetica, risponde che il Messico ha aderito “nella misura in cui l’acqua è disponibile” a causa di 3 anni di siccità. I cambiamenti climatici hanno reso impossibile mantenere antiche promesse di condivisione dell’acqua. Il trattato stesso lo riconosce e consente al Messico di riportare il suo debito idrico al prossimo ciclo quinquennale.
Diga di Hoover, fiume Colorado, Nevada
Ecco poi l'Argentina e l'Uruguay messe di fronte dalla Corte Internazionale di Giustizia per la loro disputa sullo sfruttamento del Rio de la Plata. Ma in Sudamerica altri conflitti sono in corso da sempre in Ecuador, Cile, Bolivia, Colombia, Guatemala, Brasile, Perù, Venezuela, Panama, Paraguay.
In Asia, un'altra terra di alluvioni e siccità e grandi migrazioni, il Mekong che attraversa sei Paesi e decide la produzione di riso nell’Indocina, dopo la costruzione della diga cinese di Manwan nel 1996, ha ridotto il flusso e quindi le possibilità di sviluppo agricolo dei Paesi indocinesi a valle. Tutti i fiumi del Sud-est asiatico nascono in Cina, e dall’acqua dipende la vita di 1,5 miliardi di persone ai confini della Repubblica Popolare Cinese. Pechino, però, ha sempre rifiutato trattative con Thailandia, Cambogia, Laos, Vietnam e Birmania che hanno istituito la «Mekong Commission». In Asia centrale, invece, Tagikistan e Turkmenistan fanno a gara nel progettare grandi dighe sui corsi d’acqua sui quali litigano con l'Uzbekistan che vedrà ridotti i flussi di acqua a valle.
Ma l’elenco continua con altri confitti per l’acqua in Nigeria, Sudan, Lesotho e Ghana, Kurdistan…
