Skip to main content

Guerre, clima, competitività: rimettiamo le rinnovabili al centro delle priorità

 |  Editoriale

Compiere scelte politiche in materia di energia è una grande responsabilità, perché da queste decisioni dipendono – da subito e nei decenni a venire – la sicurezza e l’indipendenza energetica del Paese, la qualità dell’aria che respiriamo e dell’ambiente in cui viviamo, la possibilità di contrastare il cambiamento climatico, la competitività dell’economia e delle nostre imprese.

Sarebbe quindi doveroso che il dibattito energetico – in quanto elemento che influenza le politiche e l’opinione pubblica – si occupasse con pragmaticità delle priorità del Paese, utilizzasse una comunicazione basata su dati verificabili e condivisi e tenesse conto delle esigenze di sicurezza nazionale, data anche la crescente instabilità del contesto geopolitico a cui siamo esposti essendo l’Italia tra i Paesi europei più dipendenti dall’estero per soddisfare il fabbisogno energetico.

Le priorità per l’energia sono note.

Dobbiamo diventare più indipendenti dalle importazioni di combustibili fossili per aumentare l’autonomia e ridurre costi ed emissioni inquinanti e climalteranti. Per farlo, dovremmo lavorare alacremente per realizzare nuovi impianti che impiegano risorse nazionali – sole, vento, acqua, biomasse, rifiuti – e tecnologie che generano energia elettrica al minor costo.

Queste priorità non le ritroviamo al centro dell’attuale dibattito energetico che sembra peccare di senso di realtà e pragmatismo. È un timore lecito guardando verso cosa si catalizza (quasi esclusivamente) l’attenzione e considerando le conseguenze di alcune posizioni.

Mentre si guarda al nucleare come “unica via” o si accusano le rinnovabili di invadere i territori italiani, si perdono di vista le priorità e le cose che andrebbero fatte restano incompiute.

L’ho ribadito in tante occasioni, anche sul mio profilo X: l’apertura all’innovazione è indubbiamente un fattore positivo. Ma l’entusiasmo sul nucleare che quasi monopolizza il dibattito sta andando a discapito delle azioni urgenti da attuare per sviluppare le rinnovabili. Ed è proprio ciò che dovremmo evitare anche secondo un recente paper della Banca d’Italia che analizza pro e contro del possibile ritorno al nucleare in Italia. Tra le conclusioni dell’analisi si legge: “l’ampliamento del dibattito offre potenziali vantaggi a condizione che non ostacoli né rallenti il progresso di altre strategie per la diversificazione del mix energetico, in particolare l'espansione delle fonti rinnovabili”.

È quello che sta accadendo in Italia, dove tecnologie nucleari che non sono ancora disponibili, incredibilmente, vengono definite “l’unica via” per ridurre i costi e la dipendenza energetica, benefici la cui concretezza è posta in serio dubbio anche dall’analisi della Banca d’Italia, e nonostante i tanti impianti rinnovabili che potremmo realizzare da subito e che quei benefici li darebbero sicuramente, se solo il quadro normativo lo permettesse.

Anche sul fattore tempi del nucleare la Banca d’Italia invita alla prudenza: “uno scenario che vede l’installazione delle nuove tecnologie nucleari in Italia già nel prossimo decennio potrebbe essere eccessivamente ottimistico.” Nell’analisi si legge “I ritardi che hanno caratterizzato la costruzione dei pochi prototipi operativi (in Russia e Cina) o in costruzione suggeriscono di guardare con cautela ai tempi con i quali i nuovi reattori modulari saranno disponibili”. “Peraltro, ai tempi di costruzione dei primi prototipi bisogna aggiungere i tempi di adattamento della filiera (sia delle componenti delle centrali sia del carburante) alla produzione in serie che al momento, è bene sottolinearlo, non è stata avviata per nessuna delle tecnologie in progettazione o disponibili”. “Occorre considerare i tempi di adattamento delle tecnologie ai criteri di sicurezza che verranno definiti in Italia (criteri che potrebbero anche ostacolare la produzione in serie qualora non fossero in linea con quelli adottati negli altri paesi dove la tecnologia verrà installata)”.

D’altronde, con il nucleare siamo ormai abituati ai ritardi e alle incertezze, con orizzonti temporali di partenza spostati sempre più in avanti.

Dopo 30 anni di polemiche, non si è trovato un posto in Italia per il deposito unico nazionale delle scorie radioattive. Peraltro, anche le recenti dichiarazioni sul deposito unico nazionale delle scorie nucleari credo si commentino da sole. A settembre 2024, dal titolare del MASE veniva detto “Il deposito delle scorie nucleari non lo vuole nessuno? E allora ne facciamo tre: uno al Nord, uno al Centro e uno al Sud. E i rifiuti più radioattivi, quelli delle vecchie centrali, li lasciamo all’estero. A pagamento”. È notizia di questi giorni che “orientativamente si ritiene che si possa prevedere per il 2029 il rilascio del provvedimento di Autorizzazione Unica e per il 2039 la messa in esercizio del Deposito Nazionale”.

Chi tiene al Paese e alla competitività delle imprese dovrebbe alimentare il dibattito energetico rimettendo al centro la necessità di eliminare le barriere alle rinnovabili, di lavorare affinché il nuovo decreto per le aree idonee ne consenta la diffusione (e sappiamo anche cosa andrebbe fatto) e per far ripartire gli investimenti: stiamo installando, ogni anno, meno della metà degli impianti rinnovabili di cui avremmo bisogno.

All’Italia serve con urgenza più energia sostenibile e a basso costo. È doveroso attuare le soluzioni che abbiamo oggi. E se fra 20 anni ne avremo di migliori, daremo il benvenuto a queste nuove tecnologie sui territori.

A proposito di tecnologie e territori, quante volte abbiamo letto “non possiamo tappezzare l’Italia di pale e pannelli”, oppure “il fotovoltaico ruba terreni all’agricoltura”. Prima di entrare nel dettaglio dei numeri che dimostrano l’infondatezza di queste posizioni, credo utile richiamare le responsabilità di quanti le hanno assunte.

È a causa di questi falsi allarmismi che si è arrivati al divieto del fotovoltaico in aree agricole, che da anni non si trova la quadra per le aree idonee alle rinnovabili, che le autorizzazioni ai nuovi impianti arrivano in grande ritardo o non arrivano affatto.

L’effetto domino arriva fino al prezzo dell’energia, aumentandolo, perché queste barriere si traducono in costi extra per le imprese che realizzano gli impianti, e prosegue fino alla perdita di credibilità del nostro Paese data l’incertezza delle politiche industriali che allontana gli investimenti e con essi la creazione di nuovi posti di lavoro.

Le argomentazioni con cui si alimenta e si indirizza il dibattito energetico dovrebbero poggiare su dati solidi e condivisi. Raggiungere gli obiettivi rinnovabili al 2030 del REPowerEU (+84 GW di rinnovabili) che sono più o meno pari a quelli del DM Aree Idonee (+80 GW), richiederebbe fino a 70.000 ettari, che equivalgono allo 0,2% del territorio italiano oppure allo 0,4% della Superficie Agricola Totale (SAT). In un Paese con 4 milioni di ettari di terreni agricoli abbandonati si è riusciti a strumentalizzare il falso mito dell’occupazione di suolo delle rinnovabili pur di frenare la transizione, a danno di tutti.

Agostino Re Rebaudengo

Agostino Re Rebaudengo si laurea in Economia all’Università di Torino, completa la sua formazione a UCLA e ad Harvard Business School. È Presidente e fondatore di ASJA ENERGY Società Benefit, azienda che produce energia rinnovabile e riduce le emissioni di CO2, e di AgoRen SB, azienda del settore costruzioni e agricoltura sostenibile, Vice Presidente di FINCO, Past President di Elettricità Futura, Co-fondatore e Vice Presidente della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e della Venice Gardens Foundation, Giornalista pubblicista, Professore all’Università Campus Biomedico di Roma.