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Il Mediterraneo si surriscalda a oltre il doppio della media globale, alimentando alluvioni lampo e venti estremi. Per adattarci dobbiamo investire in città spugna e resilienti

 |  Editoriale

Negli ultimi dieci anni, la temperatura media degli oceani ha registrato un aumento costante, confermando la tendenza al riscaldamento globale. Gli oceani, infatti, hanno assorbito oltre il 90% dell’energia termica in eccesso generata dal cambiamento climatico, svolgendo un ruolo chiave nel bilancio energetico del pianeta. Il mare, in qualche modo, è il nostro condizionatore acceso che accumula calore a favore della terra. Ma non senza effetti sul sistema generale. Anche perché il riscaldamento non è soltanto superficiale. Le acque più profonde stanno accumulando calore, contribuendo a modificare elementi del clima e a innescare fenomeni come l’innalzamento del livello del mare per via dell’espansione termica che si aggiunge al fenomeno dello scioglimento dei ghiacciai. 

Il decennio 2014-2024 è stato il più caldo mai registrato per le acque oceaniche, con temperature anomale particolarmente evidenti nel Pacifico tropicale, nell’Atlantico settentrionale e soprattutto nel bacino del Mediterraneo. Il 2025 si situa appena sotto il livello del 2024 ma sempre su livelli molto alti. Il Mediterraneo, per le sue caratteristiche geografiche e climatiche, è oggi considerato un vero e proprio “hotspot climatico”: un’area in cui gli effetti del riscaldamento globale sono amplificati. Essendo un mare semi-chiuso, con un limitato ricambio d'acqua con l’oceano Atlantico, il Mediterraneo accumula calore con maggiore facilità, con conseguenze marcate sia dal punto di vista meteorologico che in tema di rischio ambientale.

Le temperature superficiali del Mediterraneo sono aumentate mediamente di circa +0,4°C per decennio dagli anni ’80, un ritmo più che doppio rispetto alla media globale oceanica, che è di circa +0,2-0,25°C per decennio nel periodo più recente. Complessivamente, negli ultimi quarant’anni, il bacino mediterraneo ha visto un incremento termico stimato attorno a +1,5°C. Le estati del 2022 e 2023 sono state emblematiche di questa tendenza, con temperature del mare che in alcune aree hanno raggiunto i 30-31°C, superando di 4 o 5 gradi le medie storiche stagionali.

L’aumento delle temperature marine ha causato un’intensificazione degli eventi estremi, come le ondate di calore marine, sempre più frequenti, durature e intense. Queste condizioni termiche eccezionali hanno effetti già ampiamente visibili sugli ecosistemi con la presenza, sempre più diffusa, di specie aliene tropicali che alterano gli equilibri ecologici locali. La biodiversità marina ne risente profondamente, e con essa anche attività umane come la pesca e l’acquacoltura.

Ma gli effetti del riscaldamento del mare non si fermano alla vita marina: hanno un impatto diretto anche sul clima atmosferico. Mari più caldi aumentano l’evaporazione, rilasciando grandi quantità di vapore acqueo nell’atmosfera. Questo vapore agisce come carburante per le precipitazioni, generando piogge più intense, ma spesso irregolari: si assiste così a episodi sempre più frequenti di precipitazioni violente, come nubifragi e alluvioni lampo, spesso concentrate in pochi minuti, soprattutto in aree costiere e urbane. Allo stesso tempo, i periodi di siccità possono allungarsi, rendendo le risorse idriche meno prevedibili e più difficili da gestire. È interessante notare, da analisi prodotte nel nostro Paese sulle piogge giornaliere degli ultimi 100 anni, che ciò che si modifica nell’ultimo ventennio non sono tanto le medie di pioggia giornaliere quanto gli eventi orari e il perimetro di accadimento. Cioè, una stessa pioggia giornaliera si verifica in un minor lasso di tempo orario e in un territorio più ristretto.

Anche le correnti atmosferiche e i regimi di vento risentono dell’alterazione termica dei mari. I cambiamenti nella circolazione generale dell’atmosfera possono influenzare la posizione e l’intensità delle perturbazioni. In Mediterraneo, in particolare, si è osservato un aumento dei venti caldi come lo scirocco e il libeccio, oltre alla comparsa sempre più frequente dei cosiddetti “medicane” (cicloni mediterranei simili agli hurricane), alimentati proprio dalle acque marine insolitamente calde. E il vento crea, anche in aree dove tradizionalmente non accadeva, fenomeni calamitosi, come cadute di alberi o di tetti, e rende meno gestibili e più frequenti incendi boschivi o urbani.

Tutto questo sta accadendo oggi nel mondo, con particolare virulenza nel Mediterraneo e quindi in Italia. Non passa giorno che, accanto ad un’afa estiva che risulta insopportabile già nel mese di giugno, non si verifichino fenomeni intensi di pioggia, di grandine e folate di vento che creano danni alle cose e pericolo per l’incolumità delle persone.

Spesso non si verificano esondazioni di fiumi e di torrenti, che necessitano di piogge elevate e durature a livello di bacino (fluvial flood), ma piuttosto allagamenti e smottamenti che derivano da piogge intense e localizzate (pluvial flood).

È una diversa modalità alluvionale che si sta affermando sempre più spesso nelle nostre città e che non può essere affrontata più soltanto, o principalmente, con interventi strutturali a livello di bacino ma piuttosto con un ripensamento generale delle aree urbane in rapporto ai fenomeni indotto dal cambiamento climatico. E quindi ristrutturando il sistema di drenaggio urbano dele acque, con la separazione fra acqua pluviale e acqua di scarico, con una maggiore permeabilità e assorbimento delle strutture urbane, con una maggiore espansione del verde in città per mitigare le ondate di calore e con una diversa attenzione al “rischio vento”. Insomma, gli spazi urbani devono diventare sempre di più “città spugna” in relazione al ciclo dell’acqua e “città resilienti” in relazione agli altri fenomeni legati al cambiamento climatico come la temperatura e il vento.

Il cambiamento climatico, pur se ancora messo in discussione da alcune parti a livello politico, sta facendo il suo “lavoro”. Manda segnali sempre più intensi e preoccupanti sul futuro che ci attende. Mettiamo da parte il catastrofismo e il negazionismo che, in qualche misura, sono due facce opposte della stessa medaglia.  E cioè della medaglia che non ha fiducia nell’uomo e nella tecnologia. E cominciamo, il prima possibile, a fare i conti con la realtà. E a cercare una forma di adattamento che, se fatto in maniera intelligente e in maniera strategica, può rappresentare una via di sviluppo sostenuta e sostenibile a livello globale e anche per il nostro Paese.

Mauro Grassi

Mauro Grassi, economista, ha lavorato come ricercatore capo nell’Istituto di ricerca per la programmazione economica della Toscana (Irpet), ha lavorato a Roma come dirigente caposegreteria del Sottosegretario ai Trasporti Erasmo D’Angelis (Ministero delle Infrastrutture) e quindi come direttore di Italiasicura (Presidenza del Consiglio) con i Governi Renzi e Gentiloni. Attualmente è consulente e direttore della Fondazione earth and water agenda.