L’SOS dell’iceberg A23a. La lezione del gigante di ghiaccio alla deriva verso la fusione per la COP30 in Amazzonia: gli Stati pensano a riarmo e arsenali atomici ma non al clima, che colpisce e colpirà più delle guerre
Vent’anni fa John Kotter, il guru del change management, nel suo libro “Il nostro iceberg si sta sciogliendo”, indicò l’urgenza e la necessità di un nuovo approccio dell’adattamento al clima a quanti hanno responsabilità nella guida di uno Stato o di un'azienda – o una qualsiasi leadership in un qualsiasi settore – per minimizzare gli impatti negativi e massimizzare i benefici di transizioni necessarie. E l’efficacia di imparare prima possibile a superare la resistenza umana adottando modifiche comportamentali e strategie complesse, in grado di trasformare l’inerzia e il disinteresse in cambiamenti e opportunità.
Raccontò questa necessità con la struggente metafora di un iceberg sul quale vive il pinguino Fred, il protagonista del racconto, con la sua colonia di fantastici pinguini. Accade, quindi, che un brutto giorno Fred si accorge che il ghiacciaio sul quale vivono non è più stabile: sta per staccarsi dalla banchisa per andare alla deriva nell’oceano. I pinguini rischiano la vita, per loro è una minaccia catastrofica, e Fred lancia l’allarme, si affanna a spiegare che bisogna reagire, modificare vecchie abitudini, trovare soluzioni, ma nessuno è disposto ad ascoltarlo, c’è chi non crede al distacco e figuriamoci allo scioglimento. Vincono il negazionismo e la resistenza tenace a qualsiasi cambiamento di comportamenti, sia dei singoli pinguini che del collettivo. Ma accade anche che la sottovalutazione e lo scetticismo, man mano, di fronte alla verità del dramma in corso col rischio della scomparsa della loro “casa”, si trasformano in intuizioni e gesti eroici per superare un big problem apparentemente insormontabile.
È un’allegoria, una delle tante che potremmo citare nel mesto addio al più grande iceberg del Pianeta causa riscaldamento globale. Il clima sempre più caldo in ogni latitudine, per la prima volta nella lunga storia dell’umanità, presenta il conto alle nostre generazioni e a quelle future, eppure anche noi umani oggi facciamo la parte dei pinguini. Le temperature, innaturalmente accelerate dal pompaggio di gas serra del tutto fuori controllo in un mondo di guerrafondai, di invasori di territori altrui e massacratori di popolazioni inermi dove stravince il copione bellico quotidiano del riarmo ormai in cima alle agende nazionali e di una Unione europea che ha ormai smarrito sé stessa e il suo core business indicato nell’adattamento climatico e nel Green deal – sostenuto inutilmente persino da Mario Draghi –, e si lancia negli acquisti di missili e bombe e tecnologie da guerre stellari per rafforzare solo le capacità militari aumentando notevolmente solo la spesa bellica.
Siamo in un mondo con 56 fronti di guerra – il numero più alto dalla II Guerra mondiale – che coinvolgono almeno 92 Paesi, con l’assuefazione ai bollettini quotidiani dei massacri di Gaza e in Ucraina, con armi distruzioni di massa che sfilano ammirate nelle mega-parate russe o cinesi e alle nostre latitudini, con gas altamente tossici che salgono in atmosfera aumentando dosi letali di chimica nell’effetto serra o si depositano sul terreno con contaminazioni totalmente rimosse, e dove organismi come l’Onu sono letteralmente fuorigioco e del tutto impotenti.
Non c’è morale, ma solo morti e distruzioni che annunciano solo altri disastri. E passa in secondo piano il rischio climatico globale peggiore, con l’aumento costante della temperatura e lo scioglimento inesorabile dei colossi di ghiaccio ad ogni latitudine. I ghiacci artici sono oggi alle quantità più basse da quando sono iniziati i monitoraggi scientifici, e la loro fusione è sempre più rapida, con conseguenze sempre più disastrose – non solo per l’ecosistema artico. La più devastante è il lento rialzo del livello di oceani e mari, di cui pagheremo l’orrore. Se a fine secolo i climatologi e i glaciologi indicano che senza reazioni di mitigazione e adattamento subiremo un rialzo innaturale dei livelli di oceani e mari di circa un metro in più, possiamo solo immaginare cosa vedranno i nostri nipoti sui nostri lidi, spiagge, aree portuali, città costiere, campi agricoli e zone turistiche e industriali vista mare. I costi ambientali, sociali ed economici faranno rimpiangere gli investimenti enormemente più bassi e convenienti che oggi non riusciamo ad attivare per mitigare e rallentare la spinta verso il caldo globale, e per adattarci con soluzioni che pure esistono. Non rendersi conto oggi del problema e della sua complicata vastità non è solo un modo per continuare a negare l’evidenza, ma scarica sulle prossime generazioni problemi angoscianti e devastanti.
Lo spiegano e lo rispiegano inutilmente ormai da decenni gli scienziati che seguono il nostro più grande iceberg, alla deriva dal 1986, oggi nella sua agonia verso lo scioglimento inesorabile. Lo hanno battezzato col nome “A23a”. Si è staccato dalla sua banchisa antartica nel 1986, è rimasto ancorato sul fondale del Mar di Weddell, l'ampia insenatura del Continente Antartico, per oltre tre decenni, e dal 2020 le correnti lo hanno spinto alla “navigazione” con a bordo i suoi “passeggeri”: dai pinguini alle foche ai leoni marini ai microorganismi. I satelliti lo seguono da quando galleggiava sulle acque verso l'Atlantico meridionale con 4.000 kmq di superfici e vette di ghiaccio alte fino a 400 metri. Oggi, la superficie è già scesa a 3.672 kmq, e avanza con una massa di un miliardo di tonnellate di ghiaccio: la rotta del suo destino lo conduce verso l’inesorabile disintegrazione a tempi record per l’aumento della temperatura globale, ormai mega-propulsore di collassi di ecosistemi e tragedie umane.
Il problema non vale un battito di ciglia né impegni concreti di Stati. Eppure, l’iceberg alla deriva sotto gli occhi ipertecnologici dei satelliti è solo uno dei gemelli iceberg che, dopo il calving col distacco dai ghiacci polari, stanno galleggiando alla deriva spinti da venti, maree e correnti marine. Si reggono paradossalmente proprio grazie al loro peso che li tiene a galla con un prodigio naturale. Il ghiaccio puro, infatti, essendo meno denso e più leggero dell’acqua – 920 kg/mc di densità contro i 1.025 kg/mc dell’acqua di mare – permette che il 90% del volume del ghiaccio resti sommerso pur essendo in media tra 7 e 10 volte più grande e profondo dell’iceberg emerso. Le loro “fondamenta” sono sotto il mare, anche oltre i 200 metri, ma il ghiaccio è sempre più frammentato da maree e correnti, eroso da vento, onde e violente tempeste marine. Ogni anno, le piattaforme glaciali vaganti perdono tra i 1.450 e 2.000 km cubi di ghiaccio rilasciando colossali quantità d’acqua dolce che impattano anche sulla circolazione oceanica locale, oltreché sulla vita biologica. E sono pericolosi anche per la navigazione, col più celebre monito dell’affondamento del transatlantico Titanic nell’Atlantico settentrionale durante il suo viaggio inaugurale da Southampton a New York, entrato in collisione con un iceberg alle 23.40 di domenica 14 aprile 1912. Nel naufragio persero la vita tra le 1.490 e le 1.523 persone, e solo 706 riuscirono a sopravvivere.
Ma se mancano nelle nostre acque, i ghiacci in scioglimento sono anche sui nostri monti, con oltre 200 ghiacciai alpini (e l’unico appenninico sul Gran Sasso) un tempo maestosi e considerati “perenni”, sostituiti ormai in larga parte da terra e detriti, massi e pietra nuda. Il sempre più rapido ritirarsi dei fronti glaciali segna la perdita di paesaggi emozionanti e grandi riserve di acqua dolce, e il permafrost degradato aumenta l’instabilità dei versanti. Lo scioglimento progressivo fa danni con frane e slavine come è accaduto sulla Marmolada nel tragico 3 luglio del 2022, quando il crollo di un seracco del ghiacciaio di Punta Rocca provocò la valanga di 63.300 mc, lasciando 11 morti. Oggi i versanti senza ghiacci sono sotto stretta osservazione con telerilevamenti aerei e satellitari, tecniche geodetiche e interferometriche, prospezioni geofisiche, sondaggi radar. L’ultima rilevazione Greenpeace-Politecnico di Zurigo indica per il 2050 in Italia la perdita di quasi il 50% della superficie ghiacciata alpina residua, e a fine secolo il 94%. Solo aggiornando e attuando l’accordo siglato a Parigi dieci anni fa nella prossima COP30 di novembre nel Brasile amazzonico di Bélem potremmo conservare più a lungo il nostro patrimonio di ghiacci, come chiede l’ultimo appello del Club alpino italiano con 60 associazioni.
Per non raccontare che “c’erano una volta i ghiacciai”, dal 2026 dovremmo frenare il trend delle temperature al costante rialzo. Oggi siamo al sesto anno più caldo dal 1800. Se la Terra è vissuta per lunghi periodi caldi nella sua evoluzione anche senza ghiacciai, oggi la sola fusione completa dei ghiacciai della Groenlandia farebbe innalzare il livello dei mari di 7 metri! E noi anziché ridurre i gas serra oggi aumentiamo le emissioni-killer bruciando ancora carbone per produrre energia e con la corsa a utilizzare nel clima bellico il gas inquinante, lasciando come residuali le energie rinnovabili. La crisi climatica non è nelle agende degli Stati, e se c’è è in fondo all’elenco. Difendere l’umanità dal clima cambiato è un problema distante che colpisce però come un boomerang. Forse dovremmo allearci coi pinguini: questi strepitosi uccelli marini che sembrano usciti dalle favole e rischiano di scomparire dovrebbero avere diritto di parola nella prossima COP30 in Amazzonia.