Senza Pnrr l’Italia sarebbe già in recessione, che cosa accadrà dopo il 2026? La Legge di Bilancio non sta offrendo risposte all’altezza
Il 26 settembre, nel silenzio pressoché unanime, si è riunita la Cabina di regia sul Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza avviato nel 2021 e più volte rimaneggiato dal governo Meloni. Approvata, dunque, la sesta revisione, in teoria l’ultima prima della scadenza del Piano. Si tratta di una correzione che riguarda i progetti che non è possibile completare entro i termini e che saranno quindi finanziati con altri strumenti o rinviati oltre il 2026, nella promessa, tutta da verificare, di non perdere risorse, ma di spostarne semplicemente l’utilizzo.
Il Pnrr è stato indubbiamente una grande opportunità. Tutte le analisi convergono sul fatto che senza questo Piano l’Italia sarebbe scivolata in recessione già nel 2025, se non prima. Eppure, nonostante il successo complessivo del più grande investimento nella storia recente del Paese, nell’opinione pubblica prevalgono stanchezza e disillusione: obiettivi slittati, cantieri che arrancano, promesse rinviate. Alcuni sostengono che sarebbe stato più utile concentrare i finanziamenti su pochi grandi progetti, altri accusano l’eccessiva frammentazione o i ritardi di esecuzione.
Un bilancio condiviso prima o poi andrà stilato. Il Pnrr ha portato risorse senza precedenti su transizione ecologica e digitale, riduzione delle disuguaglianze territoriali e sociali, formazione del capitale umano e sostegno alle nuove generazioni, in linea con lo spirito del programma europeo Next Generation EU, nato con il presupposto di avviare un cambio di rotta alle politiche europee, in favore delle future generazioni. A mio avviso si tratta di un grande successo e non lo penso solo perché sono stato parte del governo Draghi che ha impostato il Pnrr. E il fatto di avere superato le attente verifiche della Commissione europea testimonia che molti dei progetti sono stati realizzati.
Il metodo del Pnrr, ovvero fissare obiettivi in termini di risultati finali, output in inglese, dovrebbe rappresentare la base del nuovo bilancio pluriennale europeo che proprio in queste settimane è in discussione nelle istituzioni comunitarie. A tal proposito, le posizioni di Regioni e Governi centrali divergono in particolare sul modo in cui la politica di coesione, cioè sui finanziamenti destinati alle Regioni più svantaggiate, dovrebbe essere disegnata con l’obiettivo di colmare i divari con quelle più avanzate.
Ritengo, quindi, che sia giusto riconoscere il ruolo straordinario del Pnrr, ma allo stesso tempo riflettere sulle occasioni perdute e le difficoltà incontrate. Nonostante le accelerazioni sui contratti pubblici e la realizzazione di tante opere, il governo è stato obbligato a rinviare numerose iniziative o a trasferirle su altri fondi, anche a causa dei ritardi provocati dal cambiamento di governance intervenuta nel 2022-2023. Ad esempio, il programma Industria 5.0 avrebbe dovuto sostenere settore privato e imprese, in particolare le manifatturiere, nel percorso di transizione ecologica. Ciò non è avvenuto e non sta avvenendo, malgrado le semplificazioni introdotte nelle procedure, con un gravissimo danno per il Paese. Inoltre, le continue modifiche al Piano gli hanno fatto perdere coerenza.
Al di là di questo, è ora necessario ragionare su che cosa accadrà dopo il 2026, perché il Piano Strutturale di Bilancio, presentato dal governo lo scorso anno, e il recente Documento preparatorio della Legge di Bilancio non offrono risposte in questo senso, come segnalato anche da Commissione e Consiglio europeo. È troppo tardi per recuperare quella visione a lungo termine tipica del Pnrr? Forse non ancora. Ma la sessione di bilancio che si apre ora sarà decisiva per capire se l’Italia saprà disegnare un futuro post-Pnrr all’altezza delle ambizioni del mondo economico e sociale, nella logica delle transizioni ecologica e digitale. Se è vero che il Piano ha dimostrato di poter salvare il Paese dalla recessione, resta da vedere se saremo capaci di trasformare quell’onda in un cambiamento strutturale nel modo di disegnare le politiche pubbliche, che era anch’esso uno dei frutti attesi del Pnrr. Purtroppo, le discussioni politiche di queste ore non lasciano molto spazio all’ottimismo.
Quest’editoriale è pubblicato in collaborazione con l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS)