COP30: uscire dalle fossili per non diventare fossili. A 10 anni dall’Accordo di Parigi il nodo centrale non è solo la riduzione delle emissioni, ma quando dismettere le infrastrutture fossili
Quando il prossimo novembre i leader mondiali si riuniranno alla COP30 a Belém, in Brasile, saranno trascorsi 10 anni dall’Accordo di Parigi del 2015, adottato durante la COP21 e passato alla storia come il primo trattato sul clima con carattere vincolante che ha impegnato gli Stati membri della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) a ridurre i livelli di emissioni di gas serra al fine di contenere l’aumento della temperatura globale sotto i 2°C rispetto al periodo preindustriale, impegnandosi a limitarlo a 1,5°C.
Altra tappa storica è stata la COP28 di Dubai, dove per la prima volta, è stato messo nero su bianco l’impegno per la fuoriuscita dalle fonti fossili, ed è stato specificato che è nei prossimi dieci anni che bisogna accelerare l’abbandono dei fossili. Sempre a Dubai, oltre 100 Paesi, tra cui l’Italia, hanno sottoscritto l’impegno di triplicare la capacità installata di energie rinnovabili al 2030.
Quindi, la traiettoria compatibile con l’obiettivo 1,5°C prevede che all’aumento della capacità rinnovabile (che dovrebbe triplicare al 2030 a livello globale) corrisponda un declino dell’impiego dei combustibili fossili la cui fuoriuscita dovrà necessariamente accelerare in questo decennio, e non dopo, perché ogni anno di ritardo rende l’obiettivo 1,5°C sempre più difficile e costoso da raggiungere.
A che punto siamo rispetto a questa traiettoria? Gli investimenti nelle energie rinnovabili anno dopo anno battono i record precedenti, un nuovo massimo storico lo ha registrato Bloomberg nei primi 6 mesi del 2025, 386 miliardi di dollari a livello globale, con una crescita del 10% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Il nuovo Renewables 2025, il rapporto annuale dell'IEA sul settore, ci dice che nello scenario base (“a politiche correnti”) la capacità globale di rinnovabili arriverà a 2,6 volte il livello del 2022 entro il 2030 (9.530 GW), quindi una crescita non ancora sufficiente a triplicare la capacità come richiesto dall’accordo COP28 (che richiederebbe circa 11.500 GW di capacità installata al 2030).
Solo nello scenario “accelerato” (con politiche più forti, meno incertezze, permessi più rapidi, più investimenti in reti e flessibilità, de-risking finanziario) si arriverebbe al 2030 a moltiplicare per 2,8 volte il livello di capacità installata rinnovabile rispetto al 2022, avvicinandosi all’obiettivo di COP28.
Quindi, lato rinnovabili serve qualche sforzo in più, ma è lato fuoriuscita dai combustibili fossili che non ci siamo proprio. I progetti di estrazione di combustibili fossili, invece di diminuire, come sancito a COP28, continuano ad aumentare.
È questa la contraddizione che COP30 dovrà risolvere, il nodo centrale della politica climatica globale: non più negoziati sul quanto ridurre le emissioni, ma su quando dismettere le infrastrutture fossili.
Il paradosso in cui l’espansione delle rinnovabili accelera, ma il fossile continua a trovare terreno è la sfida cardine della diplomazia climatica. Gli impegni dei Paesi in termini di riduzione delle emissioni di CO2 contenuti nei NDC (Nationally Determined Contributions) non trovano correlazione in reali tagli della produzione fossile.
Secondo il Production Gap Report 2025 dello Stockholm Environment Institute e dell’UNEP, gli aumenti della produzione di combustibili fossili stimati secondo i piani e le proiezioni governative porterebbero a livelli di produzione globale nel 2030 superiori rispettivamente del 500%, del 31% e del 92% per carbone, petrolio e gas rispetto al percorso coerente con 1,5 °C.
Il modello EN-ROADS del MIT mostra che, seguendo gli attuali piani, il Pianeta si avvia verso un aumento della temperatura superiore ai 3°C entro fine secolo, una prospettiva disastrosa.
Facciamo passi indietro nella fuoriuscita dei fossili, permettendo che il cambiamento climatico avanzi con straordinaria accelerazione. Per Jim Skea, presidente dell’IPCC, la velocità con cui il Pianeta si sta surriscaldando è “una sorpresa” che gli scienziati non si sarebbero mai aspettati e che, peraltro, non riescono a comprendere. Nel 2021 si prevedeva che la soglia di 1,5 °C sarebbe stata raggiunta non prima del 2040. Nel 2023 questa soglia è stata anticipata al 2030. Nel 2024 questa soglia è stata superata per la prima volta.
La situazione climatica globale sta peggiorando a un ritmo molto più rapido e pericoloso di quanto si potesse immaginare solo pochi anni fa, è diventata un rischio sistemico. Non si tratta più solo di salvare il clima, si tratta di salvare le condizioni stesse che permettono ai mercati, alla finanza e alla società di funzionare.
Una delle più grandi compagnie assicurative al mondo, Allianz, avverte che ci avviciniamo a livelli di temperatura tali per cui le assicurazioni non saranno più in grado di offrire copertura per molti rischi climatici. E senza assicurazione, molti altri servizi finanziari diventeranno impraticabili, dai mutui agli investimenti. SwissRe lo conferma, dobbiamo accelerare la transizione energetica perché i costi del cambiamento climatico stanno diventando insostenibili per le compagnie assicurative. Nei primi 6 mesi del 2025, si sono registrati danni record, 135 miliardi a causa degli eventi climatici estremi, a fronte di massimali assicurati di 80 miliardi (il doppio rispetto alla media degli ultimi 10 anni).
La differenza – 55 miliardi di dollari – rappresenta perdite non coperte da assicurazioni, che ricadono direttamente su famiglie, imprese e governi.
Dietro le cifre della crisi climatica si nasconde un’altra crisi, più silenziosa ma non meno devastante: quella dei beni che diventeranno inutilizzabili prima di poter ripagare i capitali investiti, i cosiddetti stranded asset.
Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE), quasi il 90% degli investimenti annuali nel petrolio e nel gas serve solo a compensare il declino dei giacimenti esistenti. “L’industria deve correre sempre più veloce solo per restare ferma”, ha spiegato il direttore esecutivo Fatih Birol. Ogni anno vengono spesi circa 570 miliardi di dollari solo per mantenere la produzione attuale, non per aumentarla, in un contesto di ritorni sul lungo termine che si protraggono per decenni e in contrasto con l’urgenza di disinvestire.
In Italia, il rischio crescente di stranded asset è concreto, sia per il gas, sia per il carbone.
Secondo l’Institute for energy economics and financial analysis (Ieefa), nonostante la domanda di gas naturale sia diminuita del 19% tra il 2021 e il 2024, i piani per le infrastrutture destinate al gas naturale liquefatto potrebbero triplicare la capacità di rigassificazione dell’Italia, portandola da 16,1 miliardi di metri cubi nel 2022 a 47,5 miliardi di metri cubi nel 2026, un livello sproporzionato rispetto al calo dei consumi che per Ieefa dovrebbe portare nel 2030 la domanda nazionale per il Gnl ad essere pari a meno di un terzo della capacità di rigassificazione del Paese. Secondo Arera, il continuo sviluppo di infrastrutture per il gas naturale liquefatto in un contesto di domanda in declino rischia di generare un eccesso di capacità, con conseguente abbassamento dei tassi di utilizzo.
Peraltro, la crescita prevista delle rinnovabili e l’auspicata elettrificazione dei consumi ridurranno in misura sempre maggiore lo spazio di mercato per le fonti fossili, accentuando l’incongruenza degli investimenti in infrastrutture fossili.
La Strategia energetica nazionale prevede la chiusura definitiva delle centrali a carbone entro il 2025. Anche per Terna, il gestore della rete elettrica, il sistema elettrico può reggere senza le due centrali a carbone e non esistono motivi tecnici per rinviare la chiusura. Il Governo invece ha deciso di rinviare la chiusura degli impianti a carbone di Brindisi e Civitavecchia. Le motivazioni, dunque, non riguardano le necessità della rete.
Rinviare la chiusura significa, quindi, rinviare artificiosamente i costi per lo smantellamento e la bonifica degli impianti, e mancare l’opportunità di riqualificazione dei territori.
Mantenere queste centrali dormienti, inoltre, costerà: bisogna pagare il personale, fare manutenzione, tenere gli impianti pronti. Stando a recenti dichiarazioni del titolare del MASE, questi costi, la cui quantificazione non è incredibilmente definita, saranno coperti dallo Stato, quindi dai cittadini.
Nel frattempo, il nostro Paese paga il prezzo più alto della crisi climatica in Europa: 300 euro all’anno per cittadino, oltre il doppio della media UE, e i danni economici sono quintuplicati rispetto al 2015.
Peraltro, in Italia gli incentivi pubblici ai combustibili fossili sono cresciuti del 166% tra il 2016 e il 2023, la crescita più alta tra i Paesi del G7. Questi dati evidenziano una situazione paradossale, invece di disinvestire, aumentiamo le risorse pubbliche destinate a sostenere fonti energetiche che generano danni sanitari, ambientali e climatici. E quindi ulteriori costi a carico dei cittadini.
Mentre il resto del mondo - pur spingendo ancora i fossili - almeno corre sulle rinnovabili, in Italia invece accumuliamo pure ritardi nella transizione energetica.
L’Italia nel 2024 ha aggiunto 7,5 GW di nuova capacità rinnovabile. Ogni anno dovremmo installare almeno il doppio degli impianti rinnovabili per raggiungere il target +80 GW del DM Aree Idonee. E invece di farlo, rallentiamo a causa di ostacoli normativi e ritardi nel rilascio delle autorizzazioni.
Secondo l’Osservatorio FER di Anie Rinnovabili, sono crollate le nuove installazioni rinnovabili nel secondo trimestre del 2025 (vs stesso periodo 2024). A diminuire sono soprattutto i grandi impianti (-48%), proprio quelli che producono energia elettrica al minor costo.
Attualmente le rinnovabili coprono circa il 40% del mix elettrico italiano, mentre il resto è affidato in larga parte al metano, di cui nel 2024 sono stati bruciati circa 20 miliardi di metri cubi solo per la produzione di elettricità. Portare le rinnovabili all’84% del mix elettrico al 2030 permetterebbe di ridurre di oltre la metà l’uso di metano per l’elettricità, riducendo quindi costi ed emissioni inquinanti e climalteranti.
In conclusione, dopo tre decenni di negoziazioni climatiche, il divario tra gli impegni e i fatti non è mai stato così profondo, è divenuto una falla strutturale del sistema politico internazionale.
Per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C, l'Agenzia Internazionale dell'Energia (IEA) afferma che è necessario che la produzione globale di carbone, petrolio e gas inizi a diminuire drasticamente entro questo decennio, non dopo, e si azzeri entro il 2050.
COP28 ha sancito questo impegno. COP30 dovrà passare ai fatti, impegnando i Paesi a mettere nero su bianco scadenze per il phase-out dai combustibili fossili che siano vincolanti e compatibili con la necessità di accelerare la decarbonizzazione entro questo decennio.
Non farlo, significherebbe andare incontro ad un aumento della temperatura di 3°C e vivere un collasso sistemico che coinvolgerebbe salute, ambiente, economie e società, facendo precipitare l’umanità in una crisi catastrofica e senza precedenti.