Che paura fa un hamburger di ceci. A Bruxelles vince la linea di chi vuole vietare l’uso di termini tradizionalmente associati ai prodotti di origine animale da parte delle alternative vegetali
Niente latte di soia e burger di ceci, la battaglia del ministro Lollobrigida (non a caso ministro della sovranità alimentare) approda al Parlamento Europeo e ottiene il successo desiderato. L’hamburger di ceci era diventato un incubo per il ministro che già nel 2023 aveva provato a far diventare legge in Italia la norma che vieta di usare termini come latte, yogurt, hamburger ai prodotti non di origine animale. In quel caso, era il novembre 2023, il Parlamento approvò una norma, con il voto contrario dell’opposizione, che non ha mai avuto effetto per mancanza dei decreti applicativi ma anche perché in palese contrasto con la legislazione europea. Ma il ministro non si è perso d’animo e spalleggiato dalle associazioni degli agricoltori è tornato alla carica, questa volta in Europa dove ha trovato sostegno degli altri partiti sovranisti ma non solo. Si arriva così al voto del Parlamento europeo (532 voti a favore e 78 contrari) di una legge sulla filiera alimentare che contiene un emendamento sulle cosiddette “terminologie meat-sounding”, proposto dalla relatrice del provvedimento Céline Imart (PPE) che introduce un divieto per l’uso di termini tradizionalmente associati ai prodotti di origine animale da parte delle alternative vegetali.
Questa misura, che dovrà ora essere esaminata dal Consiglio dei ministri dell’Agricoltura dell’UE, prevede che denominazioni come, ad esempio, “bistecca”, “scaloppina”, “salsiccia” – e soprattutto “hamburger” o “burger” – possano essere utilizzate solo per prodotti derivanti da corpi animali.
La norma è stata fortemente criticata dalle associazioni ambientaliste e animaliste. Per la LAV (Lega antivivisezionista) “l’unica cosa che si intende combattere con questo provvedimento è la crescente sensibilità delle persone e l’espansione del settore plant-based: la transizione a un sistema via via sempre più incentrato sui prodotti vegetali è inevitabile e proprio questo è quanto spaventa la lobby della carne, non la millantata confusione in cui si troverebbero i cittadini europei quando vanno a fare la spesa”.
Ma il mercato dei prodotti di origine vegetale sembra abbastanza maturo visto che solo in Europa ha superato i 3 miliardi di dollari nel 2024, con una crescita nell’ultimo biennio del 13,6% (fonte Good Food Institute).
Fuori dalle logiche lobbiste degli allevatori e delle industrie di trasformazione si fa fatica a capire il senso di questo provvedimento. Il mercato è in crescita, ha un posizionamento preciso e anche la grande distribuzione si è attrezzata definendo spazi specifici per la vendita dei prodotti di origine vegetale. Le aziende hanno tutto l’interesse a evidenziare la natura del prodotto sulle etichette e sul packaging.
Davvero qualcuno potrebbe comprare per sbaglio un hamburger di ceci?
È più probabile che la lobby zootecnica reagisca in maniera così scomposta sentendosi, giustamente, sotto attacco per gli effetti che gli allevamenti industriali hanno sull’ambiente e che l’uso eccessivo di carne ha sulla nostra salute. Un mercato, questo sì, che avrebbe bisogno di essere ridimensionato puntando sulla qualità e non sulla quantità, chiudendo gli allevamenti intensivi e sviluppando tutte le pratiche di benessere animale che, ormai è dimostrato, sono in grado anche di fornire un prodotto più sano e più buono.
Ma, come ha rilevato recentemente uno studio di Greenpeace, siamo ormai di fronte a livello mondiale a aziende che nel loro insieme generano emissioni di gas serra paragonabili, se non superiori, ai maggiori produttori di combustibili fossili. Se tutte le aziende considerate nello studio fossero un Paese, si legge nel report, rappresenterebbero la nona nazione al mondo per emissioni di gas serra. E tra queste ce n’è una anche italiana, il Gruppo Cremonini. Ecco perché la battaglia non poteva essere confinata al Parlamento italiano.