Salvare il clima (non) è un gioco. Per passare dall’intenzione all’azione, dati e grafici non bastano: servono esperienze che ci facciano sentire il problema
Sappiamo sempre di più, ma agiamo sempre di meno: è questo il paradosso del cambiamento climatico. La politica mette in discussione la scienza, e la fiducia negli esperti cala inesorabilmente. Il clima diventa l’ennesimo campo di battaglia ideologico, inquinato da disinformazione e propaganda. Non è un caso se, ormai, negli Stati Uniti, il modo più accurato per prevedere le attitudini ambientaliste di una persona è chiederle per chi vota. E mentre il presidente dello Stato a più alto impatto di CO2 pro capite, davanti alle Nazioni Unite, si è scagliato contro il cambiamento climatico come “la più grande truffa mai perpetrata”, il 2024 si chiude come l’anno più caldo mai registrato sul pianeta.
Se non bastasse, il riscaldamento globale è un nemico perfetto per restare ignorato: si manifesta nel tempo, agisce su scala planetaria, si insinua in processi sistemici complessi. Il nostro cervello, progettato per reagire a minacce concrete, tangibili e immediate, fatica a cogliere un’emergenza che si sviluppa su un arco temporale molto lungo, in luoghi spesso lontani, e con effetti devastanti ma differiti. E anche quando l’urgenza viene percepita, le risposte rischiano di essere fuorvianti. Negli Stati Uniti, molti cittadini che si dichiarano preoccupati per il cambiamento climatico indicano come priorità “piantare alberi”: una scelta concreta e rassicurante, ma che è spesso sovrastimata nel breve periodo, perché il sequestro di CO₂ avviene nell’arco di decenni e con un impatto limitato nel breve periodo. Al contrario, politiche meno intuitive ma più incisive, come l’introduzione di un prezzo sul carbonio – cioè un costo applicato alle emissioni di CO₂ che spinge imprese e consumatori a ridurle – sono considerate dagli economisti tra gli strumenti più efficaci e meno costosi per tagliare le emissioni. Eppure, faticano a ottenere consenso pubblico, perché meno visibili, più tecniche e spesso percepite come politicamente divisive. Ecco perché non basta avere le soluzioni: bisogna anche riuscire a percepirle come salienti; a toccarne con mano gli effetti; a comprenderne la rilevanza.
Negli ultimi anni, numerosi studi sulla psicologia del cambiamento climatico hanno indagato il potenziale trasformativo delle esperienze simulate. L’intuizione è semplice: se le persone vivono in prima persona scenari plausibili di un mondo alterato dal riscaldamento globale, il problema diventa più concreto e urgente. I risultati lo confermano: simulare, per esempio, l’abbattimento di alberi in una foresta tramite realtà virtuale ha portato a ridurre il consumo di carta; immergersi nella barriera corallina distrutta dall’acidificazione degli oceani, ha aumentato il coinvolgimento emotivo verso i temi ambientali. Ma simulare non è solo ‘fare finta’. È tradurre concetti astratti in esperienze vissute. Quando si agisce, anche solo simulando, si pensa in modo diverso. Gli scenari smettono di essere ipotetici e diventano tangibili. E non serve necessariamente un visore di realtà virtuale: anche un gioco di ruolo ben congegnato può fare la differenza.
Lo mostra uno studio appena pubblicato su una rivista del gruppo Nature (Rooney-Varga, J.N., Coleman, R.L., Jones, A.P. et al. Interactive role-play with climate policy simulation can motivate evidence-based climate action. Communincation Earth & Environment 6, 769, 2025) in cui i partecipanti prendono parte a un gioco collettivo dove impersonano decisori politici, industriali o sociali e negoziano soluzioni per contenere il riscaldamento globale. A guidarli c’è En-ROADS (Energy-Rapid Overview And Decision Support), un simulatore avanzato del sistema climatico globale, un vero e proprio “laboratorio digitale” per esplorare scenari futuri. Sviluppato da un consorzio internazionale che comprende MIT Sloan, Climate Interactive e Ventana Systems, consente di controllare in tempo reale l’impatto di decine di politiche climatiche – dalla carbon tax all’elettrificazione dei trasporti, fino alle pratiche agricole sostenibili. Il modello restituisce immediatamente gli effetti delle scelte simulate su indicatori chiave come temperatura globale, emissioni, consumi energetici, Pil, livello del mare e uso del suolo, consentendo a cittadini, educatori e decisori di acquisire le informazioni corrette.
Nel laboratorio di Rooney-Varga e colleghi, i 1.246 partecipanti si sono immersi in negoziati ad alta tensione, impersonando figure chiave del panorama politico ed economico: dal lobbista dei combustibili fossili al promotore delle tecnologie pulite, passando per rappresentanti dell’agricoltura e della società civile. La sfida consisteva nel difendere gli interessi del proprio settore senza perdere di vista l’obiettivo comune di contenere il riscaldamento globale. Una volta trovati gli accordi, le decisioni passavano al vaglio del simulatore. Ed è lì che le ambizioni venivano messe alla prova: le politiche negoziate abbassavano davvero la curva della temperatura? Erano all’altezza delle promesse o si limitavano a rimandare il problema, spingendolo più in là nel tempo, sulle spalle delle generazioni future?
I risultati mostrano che prima della simulazione, solo il 36% dei partecipanti identificava correttamente la carbon tax come una misura ad alto impatto. Dopo l’esperienza, la percentuale è balzata al 78%. Al contrario, la fiducia nella riforestazione – spesso percepita come una soluzione ideale, ma in realtà poco incisiva nel breve termine – è crollata dal 35% al 12%. Interessante inoltre che i partecipanti hanno mostrato un coinvolgimento emotivo più profondo, un maggiore senso di urgenza e, soprattutto, una nuova percezione di efficacia personale: la sensazione concreta di poter contribuire davvero alla soluzione.
Vedere in tempo reale l’effetto delle proprie scelte – nel bene o nel male – si è rivelato un potente acceleratore di consapevolezza. Un antidoto contro miti rassicuranti e soluzioni inefficaci, capace di andare oltre le appartenenze ideologiche. Perché è proprio qui che la simulazione fa la differenza: agisce come un ponte cognitivo, capace di superare barriere politiche e culturali. Gli effetti positivi si manifestano trasversalmente, indipendentemente da età, genere, visioni del mondo o status socioeconomico. E a sei mesi di distanza, i benefici non svaniscono. In un test di follow-up, la maggior parte dei partecipanti ricordava le politiche ad alto impatto e continuava a percepire il cambiamento climatico come una questione personale (circa un terzo dichiarava di aver intrapreso azioni reali – riduzione consumi energetici, dieta più sostenibile, partecipazione politica - ispirate direttamente dall’esperienza della simulazione.)
Per passare dall’intenzione all’azione, dati e grafici non bastano: servono esperienze che ci facciano sentire il problema. Il gioco simulato, grazie alla sua forza immersiva e alla possibilità di sperimentare in prima persona le conseguenze delle proprie scelte, si rivela un alleato prezioso. Da astrazione, l’emergenza passa ad essere un’esperienza vissuta. E quando qualcosa ci tocca da vicino, tutto cambia. Un gioco, da solo, non salverà il pianeta. Ma può cambiare lo sguardo di chi partecipa, accrescere la consapevolezza, e trasformare la comprensione in impegno. E secondo lo studio citato, in molti casi, è proprio quello che accade. In un mondo attraversato da crisi complesse, serve molto più della buona volontà individuale: occorre condivisione, fiducia negli strumenti giusti e capacità di cooperare. Esperienze come la Climate Action Simulation non sono soluzioni in sé, ma precondizioni culturali per il cambiamento. Allenano il pensiero sistemico, sfidano la disinformazione e rendono più tangibile il legame tra ciò che decidiamo oggi e il mondo che lasceremo domani.
