L’Italia è un Paese prevalentemente montuoso. E una montagna disabitata non può dare alcun contributo contro crisi climatica ed eventi estremi. La sfida oggi non passa per il tradizionale e rassicurante ripopolamento, ma per un più radicale neopopolamento
“Comunità presenti e beni comuni. Le radici del futuro”, il titolo che abbiamo scelto quest’anno per le Giornate della Soft Economy, chiude una trilogia di appuntamenti dedicati a quella che Symbola ha individuato e propone all’attenzione del discorso pubblico e delle agende dell’economia, della politica e delle istituzioni come la nuova questione territoriale nazionale, che riguarda la tenuta e la sicurezza dell’assetto generale del Paese a partire da quel 66% che Eurostat classifica montano e alto collinare e che per Ispra arriva fino al 75%.
Una centralità della montagna, sottolineavamo nel primo appuntamento di questa trilogia “La Sfida territoriale: geografie e strategie contro le crisi climatica e demografica”, che è prima di tutto geografica e fisica e conseguentemente e inevitabilmente territoriale, se consideriamo che le catene alpina, appenninica e insulari sono limitrofe, prossime e spesso interstiziali alla maggior parte dei sistemi insediativi più densamente abitati e più intensamente urbanizzati del Paese.
Una visione allargata e proiettiva delle montagne italiane che è purtroppo totalmente contraddetta dalla Legge sulla Montagna recentemente approvata, che prevede una riclassificazione dei comuni montani su base altimetrica, retrocedendo così all’idea di una montagna vera e autentica destinataria di assistenza, compensazioni e risarcimenti. Una montagna più piccola, confinata, distinta e distante dalla sua dimensione metromontana; sia nella sua proiezione verso l’esterno - i contesti territoriali più vasti di riferimento come le aree urbane e metropolitane - sia in quella verso l’interno segnata da relazioni geografiche, storiche, culturali ed economiche che nel tempo hanno dato vita a veri e propri sistemi urbano montano policentrici per loro natura indifferenti alle quote altimetriche.
Una montagna forzatamente rimpicciolita dimensionalmente e relazionalmente oggetto passivo e non soggetto attivo delle politiche economiche, sociali e territoriali del Paese.
Al contrario continuiamo a ritenere l’Italia un paese prevalentemente montuoso al centro del Mediterraneo; un mare tra terre montuose, come ci ricorda Fernand Braudel, il suo più importante storico contemporaneo. Proprio quel Mediterraneo che è oggi uno dei maggiori hot spot climatici - collocandosi in testa alla classifica dei mari più caldi a livello globale - a causa dell’innalzamento delle temperature delle acque che alimenta l’energia e la portata dei fenomeni meteoclimatici.
Proprio quelle montagne anch’esse indicate come hot spot climatici perché registrano un riscaldamento più rapido quasi del doppio rispetto alla media globale. Le conseguenze sono il ritiro dei ghiacciai, la diminuzione della neve, la perdita di biodiversità, la scarsità idrica e l’aumento degli eventi estremi come alluvioni, esondazioni ed allagamenti.
Per questo sottolineavamo i rischi ai quali è esposto un paese come l’Italia prevalentemente montuoso e alto collinare circondato da mari e al centro del Mediterraneo, e quindi la necessità di maturare la consapevolezza della nuova normalità con la quale imparare a convivere, caratterizzata dall’alternarsi e il ripetersi di periodi di siccità e di precipitazioni intense.
E richiamavamo l’urgenza di approntare strategie adeguate, efficaci e lungimiranti per contrastare le conseguenze di questa nuova normalità segnata da incendi boschivi, alluvioni ed esondazioni che mandano sott’acqua città e campagne e che aumentano esponenzialmente il rischio idrogeologico in un paese segnato da ben 22mila Km di reticolo idrografico, con quasi un quarto del territorio (il 23%) a rischio frane.
Un allarme purtroppo confermato anche dal quarto Rapporto Ispra “Dissesto idrogeologico in Italia”, che registra che «la superficie a rischio frane è aumentata in appena quattro anni del 15%, passando dai 55.400 km² del 2021 ai 69.500 km² del 2024 e che gli ultimi tre anni sono stati caratterizzati da eventi idro - metereologici di eccezionale intensità».
Un nuovo studio basato su una metodologia consolidata e già pubblicata, stima le perdite economiche da eventi estremi in Europa in questa ultima estate 2025. I risultati sono impressionanti, soprattutto per l'Europa meridionale, e mostrano come i fenomeni meteorologici estremi possano ostacolare le economie non solo direttamente e nell'immediato, ma anche su periodi più lunghi.
In Italia, le perdite stimate dell'ultima estate sono di 11,9 miliardi di euro per il 2025 e si prevede che raggiungano i 34,2 miliardi di euro entro il 2029. Ciò corrisponde rispettivamente allo 0,6% e all'1,75% del prodotto economico italiano del 2024. Inoltre, lo studio chiarisce che i costi macroeconomici delle catastrofi superano di gran lunga le semplici misure di danno e distruzione, come le "perdite economiche" tipicamente compilate dai riassicuratori, queste non includono, ad esempio, la riduzione della produttività e della produzione nel settore delle costruzioni e dell'ospitalità a causa delle ondate di calore, né gli impatti indiretti come la perdita di produzione delle fabbriche danneggiate, i costi umani, i costi ambientali, l'inflazione, i costi di adattamento e le ricadute attraverso il commercio e i collegamenti della catena di approvvigionamento.
Dal 2021 in Italia l’estensione dei territori boschivi e semi-naturali è maggiore di quella dei terreni ad agricoltura intensiva o semi-estensiva e interessa ben il 40% del totale della superficie del territorio nazionale; ma quasi la metà (41,4%) delle foreste non sono oggetto di alcun intervento; solo il 15,3% ha un piano di gestione e solo il 10% sono certificate e sono quasi tutte al nord est; il prelievo medio sul loro accrescimento annuo si ferma al 21% rispetto al 40% della media europea e al 90% dei paesi scandinavi. Un quadro critico e preoccupante soprattutto per il 66% del territorio nazionale montano e alto collinare dove la copertura forestale raggiunge il 70% a fronte di un 25% di aree agricole in progressiva contrazione e di un 5% di territorio artificiale e urbanizzato. Tutto questo in un paese come il nostro che pur avendo quel 40% di boschi importa l’80% del legno per alimentare la sua industria dell’arredo legno che è terza al mondo nell’export dopo Cina e Vietnam.
Una montagna disabitata non può dare alcun contributo al contrasto alla crisi climatica, aumentandone invece esponenzialmente i rischi e gli impatti derivanti dagli eventi estremi conseguenti. Per questo sono necessarie politiche e azioni che incentivino e favoriscano la presenza stabile e radicata di comunità e istituzioni locali in grado di animare e sostenere l’economia dei territori e di svolgere le funzioni di vigilanza, monitoraggio, cura e manutenzione territoriale in grado di assicurare i fondamentali servizi ecosistemici.
C’è la necessità di innescare un vero e proprio processo di neopopolamento - non tanto e non solo come il risultato di un lento processo di abbandono delle città verso le aree montane - come esito di un progetto capace di costruire e offrire nuove condizioni di attrattività territoriale. Un neologismo più radicale e interrogante - quello di neopopolamento - rispetto a quello più rassicurante e tradizionale di ripopolamento, che indica che non basta rimboccare il bacino demografico esistente, puntellare, consolidare e rinforzare le mura delle vecchie civitas, ma occorre fondare nuove civitas. Civitas nuove, perché il neopopolamento riguarderà inevitabilmente i caratteri inediti delle neo comunità - delle nuove forme sociali e culturali e quindi delle nuove identità territoriali - che nasceranno dall’incontro tra le comunità presenti - quelle che abitano e frequentano con continuità le montagne - i giovani - nativi climatici e digitali richiamati da sfide che si giocano sul terreno dove convergono crisi climatica, innovazione tecnologica e digitale e intelligenza artificiale - e gli immigrati, chiamati ad essere protagonisti decisivi di un processo di neopopolamento, destinato ad essere irrilevante in assenza del loro fondamentale contributo, già evidente in molte realtà territoriali e produttive del Paese.
Si tratta di comunità presenti, quindi generative di “coscienza di luogo” - in un rapporto dialettico e probabilmente anche conflittuale con i nuovi arrivati - ma anche di nuove esperienze comunitarie a partire da quelle che possono nascere da un associazionismo fondiario, agricolo e forestale, capace di trasformare i tanti beni privati - sottoutilizzati e abbandonati che costituiscono un evidente fattore diseconomico e di vulnerabilità e pericolosità territoriale - in beni comuni che possono generare e distribuire nuova ricchezza alimentando le filiere dell’economia circolare, assicurando condizioni di sicurezza territoriale, contrastando gli effetti e gli impatti della crisi climatica, rianimando e rimotivando le stesse comunità presenti e proponendo condizioni contemporanee di attrattività che favoriscano il neopopolamento.
È un passaggio obbligato, se consideriamo che le comunità presenti oltre ad essere depositarie del patrimonio immateriale - antropologico culturale - sono anche proprietarie del patrimonio materiale - case e terreni - che deve essere necessariamente rimesso nella circolarità economica per sottrarlo al sottoutilizzo e all’abbandono.
La questione è: come sollecitare allora in comunità invecchiate e decimate, destinate ad evaporare nell’arco dei prossimi 20/30 anni, il formarsi di quella coscienza di ruolo che le faccia percepire e le renda protagoniste del futuro dei loro territori? Come uscire da una dimensione retrospettiva, difensiva, e troppo spesso escludente, per entrare in una prospettica, aperta e inclusiva - dove mahlerianamente le comunità custodiscono il fuoco dei territori piuttosto che venerarne le ceneri - tramandando ai nuovi abitanti, giovani italiani e immigrati anch’essi prevalentemente giovani, un certo sguardo sui luoghi, la lettura e la comprensione di posture antropologiche, conoscenze contestuali, saperi locali, pratiche colturali e tradizioni culturali, riti, celebrazioni e ricorrenze che scandiscono il tempo dei territori e segnano profondamente i caratteri fondamentali della loro identità?
Come quello rappresentato dalla presenza di un patrimonio culturale diffuso nei confronti del quale le comunità presenti hanno da sempre avuto un rapporto simbiotico, intimo e familiare prima ancora che di orgoglio pubblico parrocchiale o comunale; pregando dentro quelle chiese, davanti a quei cristi, a quei santi e a quelle madonne; davanti ai quali ancora oggi si battezzano, comunicano, cresimano, si sposano, testimoniano e infine si accomiatano.
Quale sfida culturale più grande di quella di inserire nelle menti, se non nel cuore, degli abitanti futuri - generalmente meno credenti e praticanti e in molti casi appartenenti a religioni diverse da quella cattolica matrice culturale e spirituale di quei beni - i valori e i significati di un patrimonio sostanzialmente storico e di natura religiosa senza la mediazione di una trasmissione naturale per via familiare e comunitaria?
Il patrimonio allora prima che un tema di sviluppo locale nella sua declinazione turistica, di assetto espositivo, di modalità di fruizione, di app suggestive diventa un tema che interroga i caratteri delle nuove comunità che nasceranno dai processi di neopopolamento.
Come riattualizzare e reinterpretare la trama e l’ordito dei valori - religiosi ma certamente anche civili, visto il prevedibile minor o quantomeno diverso fervore religioso dei nuovi abitanti - che stanno dietro l’arazzo del patrimonio affinché questo continui, certamente in forme e modalità inedite, ad essere parte integrante e viva della identità delle nuove comunità e non venga confinato a elemento seppur prestigioso del corredo territoriale?
La sollecitazione alla progettazione culturale è quella di uscire dalla comfort zone del “testo”- inteso come spazio urbano, nel quale e per il quale sono prevalentemente pensate la maggior parte delle iniziative - per occuparsi più del “contesto”.
Promuovendo idee e attività che favoriscano il formarsi di coalizioni progettuali e incoraggiando quella condivisione e collaborazione tra comunità e istituzioni locali necessarie a favorire la coesione territoriale, piuttosto che incentivare la competizione tra comuni come purtroppo avviene con le attuali modalità di distribuzione a pioggia dei finanziamenti e di predisposizione dei bandi.
Se le sfide della rigenerazione sono dunque territoriali ne consegue, ad esempio, che oggi occuparsi di cammini, ciclovie, sentieri, itinerari storico culturali, ponti tibetani, parchi avventura significa prestare la dovuta attenzione alla loro reale agibilità e fruibilità in un futuro più prossimo di quello che siamo portati ad immaginare: a causa dell’esponenziale e inesorabile inselvatichimento delle aree che attraversano, sempre più a rischio di incendi boschivi, schianti di alberi, smottamenti, frane e presenza di una fauna selvatica sempre più confidente.
Occuparsi della ristorazione o della promozione delle tipicità agroalimentari significa prestare attenzione alla provenienza locale dei prodotti, mantenendo così la diversità paesaggistica, biologica, culturale e colturale delle montagne italiane.
Come favorire giustamente l’ospitalità, anche attraverso la tipologia dell’albergo diffuso, senza considerare i rischi di innescare processi di gentrificazione turistica può portare a rendere più onerose le condizioni di residenzialità per le comunità presenti e di rendere difficile e scoraggiare l’arrivo di nuovi abitanti.
Per questo il necessario contributo della progettazione culturale alle sfide della rigenerazione sarà tanto più importante quanto più avrà un carattere strutturale, e non sovrastrutturale come rischiano di essere molti degli interventi finanziati dal Pnrr.
Strutturale nel porsi il problema che il come, il progetto, non può essere disgiunto dal perché, contrastare il sottoutilizzo e l’abbandono dei territori, e dal chi, le neocomunità che prenderanno forma e identità dentro i processi di neopopolamento.
La montagna come epicentro delle innovazioni culturali, sociali, amministrative e istituzionali, economiche e tecnologiche con le quali contrastare l’avanzare delle terre; l’inselvatichimento, il restringersi e rimpicciolirsi dei territori e l’evaporazione delle comunità. Una montagna più protettiva, e per questo più abitabile, perché più produttiva e innovativa e per questo più attrattiva e popolata.