Addio Loris Rispoli. Simbolo della battaglia per la verità per i 140 morti nel rogo sul traghetto Moby Prince dopo la collisione con la petroliera nella rada di Livorno il 10 aprile ‘91. È nebbia fitta sul più grave incidente della nostra marineria civile
Era l’alba tragica dell’11 aprile del 1991, un giovedì nero. Nel piccolo spazio di coperta della bettolina che fendeva veloce le onde del mare nella rada di Livorno, davanti a noi giornalisti s’ingrandiva sempre di più l’impressionante camera ardente galleggiante annerita dal fumo e dalle fiamme. Era ciò che restava del traghetto Moby Prince della compagnia Navarma, ancora in fiamme. Solo tre giorni dopo, riuscirono a recuperare i 140 corpi carbonizzati dei 65 membri dell'equipaggio e dei 75 passeggeri arsi vivi o soffocati dal fumo dell’incendio della più grave tragedia nella storia della marineria italiana in tempo di pace.
La sera prima, neanche il tempo di prendere il largo e uscire in mare aperto con traversata in direzione Olbia dopo aver mollato gli ormeggi alle ore 22.03, la motonave Moby Prince con i suoi 131 metri di lunghezza e 6.700 tonnellate di stazza lorda, con a bordo passeggeri e l'intero equipaggio agli ordini del comandante Ugo Chessa, colpì di prua la superpetroliera sfondandola e penetrando all'interno della cisterna numero 7, contenente 2700 tonnellate di petrolio Iranian Light. Alle 22.25, il marconista di bordo lanciò il Mayday. Parte del petrolio che fuoriuscì si riversò in mare, il resto investì in pieno la prua del traghetto e le scintille e il calore prodotti dallo sfregamento delle lamiere delle due navi nell'impatto accesero rapidamente fuochi e fiamme che circondarono il traghetto. Nonostante il gigantesco rogo nella rada, i soccorsi partirono in mare solo dopo ripetute richieste di aiuto da parte dell'Agip Abruzzo. Lo scafo in fiamme del Moby Prince venne individuato solo alle ore 23.35. Possiamo solo immaginare l’agonia dei vivi. Le urla degli ustionati. Le grida di terrore. Le porte che non si aprivano. Passò un tempo infinito, e nel salone della nave trovarono 91 corpi carbonizzati forse anche per il ritardo assassino dei soccorsi arrivati per portar via l’unico sopravvissuto, il mozzo Alessio Bertrand, sotto choc dopo aver visto e vissuto l’inferno. Un'ora e venticinque minuti dopo l’incidente! Non in alto mare, ma dentro l’area portuale della città.
In quella tragedia, in quei giorni che impressionarono l’Italia e il mondo, in una Livorno a lutto e nella disperazione dei parenti delle vittime, ho conosciuto Loris Rispoli. Erano le ore in cui anche lui fu costretto a riconoscere il corpo della sua amata sorella Liana che lavorava sul traghetto come commessa nella boutique. Lo accompagnarono nell’orrore del Capannone Karin B del porto labronico dove erano stati allineati i resti carbonizzati delle vittime, nel silenzio squarciato da urla e pianti di indicibile dolore e svenimenti.
Da allora, e per ben 34 anni, Loris ha dedicato la sua vita a quei corpi straziati di fronte ai quali ha giurato di mantenere viva la loro memoria e un dolore che anche per lui non si è mai rimarginato. Loris era un riferimento costante, ha sfidato anche il tempo che gli rimaneva alla ricerca delle prove sui responsabili di quella strage impunita. Luciano aveva 69 anni, da sabato scorso non c’è più. È stato il Presidente dell’Associazione 140, come il numero delle vittime del Moby Prince, il tenace ricercatore di indizi per raggiungere la verità e giustizia. Luciano era il simbolo di una battaglia combattuta fino all’ultimo respiro e senza risparmio nemmeno quando la malattia lo ha colpito. Ha giurato a sé stesso di essere un faro acceso in cerca della verità. Ha avuto la sua città accanto, ha fatto di tutto e in ogni sede istituzionale per non far dimenticare la strage del Moby Prince. Ha lottato come un leone per la verità ufficiale che ancora oggi, dopo oltre tre decenni di indagini e i lavori di ben 3 commissioni d’inchiesta parlamentari, tutt’ora in corso, ancora non c’è. Ma se si continua a cercarla è solo grazie all’instancabile impegno di Luciano.
La sua disperazione e la sua infaticabile ricerca di giustizia e verità, anche dopo la sentenza che assolse tutti gli imputati nel primo e unico processo su quella strage durato ben 6 anni e che lui definì semplicemente «scandaloso» e «assurdo» perché «l’ingiustizia è stata fatta. I nostri parenti, mia sorella, li hanno uccisi un’altra volta». Ha inviato lettere a tutti i poteri dello Stato, ha spinto le tre commissioni parlamentari d’inchiesta, ogni 10 aprile di ogni anno srotolava lo striscione blu e attraversava le strade di Livorno in testa al lungo corteo che ricordava i 140 morti con nessun colpevole. Sempre, «finché avrò fiato – spiegava – finché non arriviamo alla verità e alla giustizia negata».
Senza verità, il traghetto continua a bruciare, insieme alle sue vittime. «È una lacerazione aperta», come ha ricordato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Troppi misteri, la stessa Commissione parlamentare di inchiesta chiede nuove perizie per chiarire problemi tecnici o di distrazione, presenza di «nebbia inusuale e improvvisa» e di strani traffici illegali di armi e di carburante con passaggi di bettoline e chiatte non segnalate. E sullo sfondo restano le 3 navi militari statunitensi che proprio quella sera scaricavano le armi di ritorno dall’operazione Desert Storm per trasferirle a Camp Darby, la base Usa a due passi con bunker colmi di munizioni per artiglieria, missili e bombe d’aereo, tank, blindati, camion e jeep, allora il più grande arsenale americano all’estero. Quante erano e dove erano posizionate al momento dello schianto? Non esiste una traccia, uno documento, una foto satellitare, un tracciato radar. Quando fui eletto consigliere regionale della Toscana, feci questa domanda all’Ambasciata Usa. Con gran sorpresa di tutti, ricevetti una riposta ufficiale. Era firmata dal Capitano di Vascello della Marina Militare John T. Oliver, capo ufficio responsabile dell’avvocatura militare del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Rilevava come «…il Governo degli Stati Uniti abbia ampiamente contribuito alle indagini ufficiali svolte dalle autorità italiane…che non vi sia altro in possesso del Governo americano che possa gettare luce sul disastro della Moby Prince…». Che «Camp Darby non è in possesso, né lo era all’epoca, di attrezzature in grado di intercettare le comunicazioni radio della Moby Prince. Poiché non si tratta di una base portuale, Camp Darby non ha motivo di intercettare le comunicazioni che le navi trasmettono a terra. Allo stesso modo Camp Darby non è dotata di attrezzatura radar…». Che «Il Governo Usa non aveva alcun motivo di monitorare il Porto di Livorno con un sistema di immagini satellitari e non lo stava facendo. Non sono quindi disponibili immagini o registrazioni di alcun tipo…Non vi erano navi della Marina Militare Usa nel Porto di Livorno la notte dell’incidente. Vi erano, al contrario, 5 navi merci noleggiate dal Comando Trasporti Militari Usa nel porto, una delle quali dovette essere rapidamente allontanata perché minacciata dalle fiamme del Moby Prince…le autorità italiane hanno avuto la possibilità di interrogare i capitani e gli equipaggi delle cinque unità nel corso delle indagini ufficiali». E così concludeva: «Sfortunatamente non siamo in possesso di alcun ulteriore elemento che possa spiegare la tragedia».
Perché il traghetto andò a schiantarsi come un proiettile contro la superpetroliera Agip Abruzzo, dopo tre processi? Dalle indagini è emerso l'errore umano da parte del comandante e dell'equipaggio della plancia del traghetto, censurato da tutte le commissioni d'inchiesta e in tutti i processi, fino all'ultima archiviazione disposta dalla Procura di Livorno nel 2010. Il comandante Ugo Chessa, anche lui vittima della strage, se non ha direttamente determinato la collisione, non è riuscito neppure ad evitarla. Tra le accuse sono stati elencati: il malfunzionamento degli apparati di sicurezza a bordo, il pilota del porto sceso prima del previsto, la mancata attenzione alle procedure di uscita dal porto, la velocità troppo elevata in fase di uscita, l'aver lasciato aperto il portellone prodiero di seconda difesa del traghetto in fase di navigazione, la possibile distrazione dell’equipaggio per la gara di andata della semifinale di Coppa delle Coppe Juve-Barcellona ma sempre decisamente respinta dall’unico superstite Alessio Bertrand nei molti interrogatori dichiarando di aver personalmente visto l'equipaggio regolarmente impegnato a svolgere tutte le operazioni di gestione del traghetto.
Restano il dolore dei familiari delle vittime, e per la scomparsa di Loris.