Il giorno della marmitta. Perché l’Ue abbatte il Green deal e salva il motore a scoppio a tutta CO2, pur sapendo che il futuro che conviene all’Europa e all’Italia è elettrico?
Era il 2019 ma sembra un secolo fa. Era l’anno del lancio della sfida industriale e tecnologica per la neutralità climatica entro il 2050, per ridurre le emissioni del 55% entro il 2030, per rilanciare settori industriali e produttivi a partire dall’energia e dai trasporti con regole, misure di finanza sostenibile, riforme legislative e investimenti per la crescita. C’era una volta il continente che puntava forte sulla competizione globale con il clamoroso Green deal, introducendo norme sull’economia circolare e arrivando prima anche sulla nuova industria automobilistica con tecnologie electric e full electric. La Commissione Ue giocava di anticipo sui mercati mondiali decidendo, dal 2035, di lasciare al passato i motori endotermici non solo per ridurre le emissioni-killer in atmosfera, ma finanziando così le economie dell’oggi e del futuro prossimo nell’intero settore dell’automotive.
Cosa c’è oggi? Un’Europa che va all’attacco dei suoi target 2035 e ha mandato a segno un primo brutto colpo salvando una quota di motori a scoppio, destinati ad essere rottamati dall’evoluzione galoppante delle tecnologie della nuova mobilità. La cecità sul futuro industriale dell’automobile è riuscita a far aprire ai commissari Ue una rischiosa “breccia di Porta Pia” ma al contrario, creando un varco verso il passato con la revisione del regolamento sulle emissioni inquinanti di auto a tecnologia ottocentesca che superano costantemente i limiti di Pm10, polveri sottili, con effetti devastanti ma molto sottovalutati.
Con il passo del gambero verso l’industria novecentesca più obsoleta e inquinatrice e ormai priva di appeal, hanno ridotto il taglio di gas serra entro il 2035 coraggiosamente fissato al 100%, portandolo al 90%, permettendo così un 10% di inquinamento ancora con motori ibridi e termici. Un cavallo di Troia introdotto sul campo del Green deal, sia come scelta inquinatrice sia per l’aumento dei rischi di default industriale dell’automotive europea. I commissari hanno provato a compensare questa pessima scelta prevendo l’uso di “acciaio verde a basse emissioni di carbonio prodotto nell’Unione e di carburanti sintetici e biocarburanti green”. Ma che senso ha permettere l’immatricolazione tra dieci anni – un secolo intero rispetto al passato, vista dall’evoluzione e i trend di sviluppo delle tecnologie della mobilità – e permetterla dal 2035 per vecchi veicoli a motore termico promettendo che “tutte le potenziali emissioni aggiuntive generate da tali flessibilità dovranno essere pienamente compensate a monte”, come ha spiegato l’imbarazzato Commissario per l'industria, l'imprenditoria, le piccole e medie imprese e il mercato unico, il francese Stéphane Séjourné?
La retromarcia di Bruxelles è il primo grave cedimento alle richieste di governi e aziende affetti da miopia industriale e da allergia alla decarbonizzazione del settore automobilistico, nell’illusione ottica di una competizione che pensano possa ancora essere giocata con le auto a motore del passato, quando ormai i nostri autosaloni si stanno riempiendo di auto del futuro buone per ogni tasca e costruite dai più agguerriti concorrenti di altri continenti, lanciati anche per queste scelte di retroguardia sulle vaste praterie dei mercati europei dell’elettrico.
Il colpo basso è stato benedetto soprattutto dal cancelliere tedesco Friedrich Merz, favorito e applaudito dall’associazione dei costruttori di auto affetta da cecità, e che ora teme persino trappoloni poiché la scelta dei commissari per loro “sembra una maggiore apertura ma è ostacolata da così tante difficoltà che rischia di rimanere inefficace nella pratica”. Speriamolo davvero. Auspichiamo che il pacchetto dell’esecutivo non superi i negoziati con Parlamento e Consiglio, e che gli europarlamentari non ritardino ancor di più lo sviluppo delle tecnologie per la nuova mobilità.
La transizione verso l’autolesionismo nell’automotive penalizza ovviamente anche l’Italia, anzi soprattutto l’Italia, già penosamente ai minimi storici con i fallimenti Fiat-Stellantis e i forfait di ogni nuovo possibile e annunciato accordo con investitori e produttori di auto elettriche competitive, lasciati da anni in stand by.
La guerra ideologica e insensata contro auto che riescono a tenere insieme protezione della salute e dell’ambiente e vantaggi di mercato e occupazione è un colpo anche alla nostra storia di innovazione nella mobilità. I ritardi nelle batterie e il disimpegno nella lotta climatica sono colpi bassi anche al made in Italy, perché la pessima scelta industriale della Commissione Ue indebolisce l’industria automobilistica europea esponendola a rischi di competitività, disoccupazione e lasciando la leadership tecnologica ad altri, e soprattutto alla Cina, con brand arrembanti come Byd, Dongfeng, Chery.
Ci vuole poco a capire che il futuro dell’auto è elettrico, e richiede rapidità e chiarezza nelle scelte. Anche i consumatori europei confermano il trend di vendite di auto elettriche a batteria in rapida crescita, con record di crescita dalla Danimarca al Belgio, dalla Francia alla Germania, con vendite di auto per le tasche della classe media. Anziché rafforzare il trend, sviluppare business, partecipare alla grande corsa riducendo i costi delle batterie, espandendo le infrastrutture di ricarica – oggi tre quarti della rete autostradale principale europea sono coperti da ricariche ultraveloci – si rallenta la transizione, si torna al passato destinato a scomparire dei motori a combustione, provocano perdite di posti di lavoro nella filiera automobilistica. Scelte che fanno ricchi i concorrenti globali che seguono le logiche di un mercato in rapidissima crescita, già oggi in netto vantaggio nella produzione di veicoli elettrici e batterie.
Se l’approccio “pragmatico” della Ue è questo, si prolungano le crisi, perché anche i sassi sanno che il motore a combustione scoraggia e scoraggerà sempre più i consumatori e gli investimenti, oltre a frenare con incoscienza totale gli obiettivi ambiziosi ma possibili da raggiungere di riduzione di CO₂.
L’incertezza industriale, il galleggiamento: oggi è questo il vero paradosso europeo, un altro durissimo ennesimo colpo alla credibilità della maggioranza Ursula che mostra di non aver nemmeno appreso la lezione di Mario Draghi che, il 9 settembre del 2024, presentò il suo articolato rapporto sul futuro della competitività europea, con tutti a congratularsi con uno dei più ascoltati economisti e nostro presidente del Consiglio dal 13 febbraio 2021 al 22 ottobre 2022. Lì Draghi evidenziava con estrema chiarezza e senza mezzi termini che non solo l’Italia ma l’Unione stanno rischiando “una lenta agonia”, che continuando così siamo “destinati a declinare”. Perché servono, in tutti i campi, investimenti, innovazione, produttività, competenze per recuperare l’evidente svantaggio competitivo nell’energia e nella transizione verde e per l’adattamento climatico.
Draghi spiegò che pesa nella Ue lo scarso desiderio di affrontare il futuro, anche prendendosi dei rischi, il non agire “che compromette benessere e ambiente”. Draghi conosce molto bene le dinamiche dei mercati e i punti deboli del nostro Paese, e rilanciava le nostre potenzialità. Come emergono anche dall’ultima indagine Symbola i tre driver che spingono verso la qualità dei prodotti e la sostenibilità delle produzioni, incrementando la quota di imprese più green portandola al 37% del totale delle nostre imprese. Qualità sempre più associata alla “sostenibilità” che è strettamente connessa alla “coesione” e alla “”innovazione”. Ovvero, la qualità dei beni prodotti in modo sostenibile spinge il consumatore verso acquisti più responsabili.
L’Europa e l’Italia in particolare avrebbero enormi opportunità e tanti spazi di mercato. Dovrebbero guardare agli asset più innovativi, investire e realizzare nuovi prodotti richiesti dal mercato globale. Non perdere tempo e terreno e posti di lavoro e restare a bordo campo.