Quando la crisi climatica divide i bambini dalle proprie famiglie. In Uganda il 20% non vive con i genitori, e 2,2 milioni vivono in aree colpite da siccità e alluvioni
Il cambiamento climatico è uno dei temi più dibattuti negli ultimi anni. I danni connessi alle sue conseguenze, le politiche per ridurne l’impatto presente e futuro, i dibattiti sul mix energetico ottimale e sugli impatti distributivi sono ormai parte delle discussioni di politica economica che conosciamo, anche se i risultati finora ottenuti in termini di riduzione delle emissioni non sono affatto incoraggianti (come testimoniato da quanto ottenuto nella 30esima Cop della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici dello scorso novembre).
Ci sono però conseguenze di cui si parla meno, perché a volte meno visibili o meno “popolari”. Se un esempio delle seconde è indubbiamente l’impatto del clima sui flussi migratori, tra le conseguenze “silenziose” degli impatti climatici ci sono anche le decisioni drastiche e dolorose che alcune famiglie rurali sono costrette a prendere a causa del cambiamento climatico e dei suoi effetti negativi, in particolare sull’agricoltura.
Un nuovo studio condotto da Manuela Coromaldi, il sottoscritto e Loredana Mirra con riferimento all’Uganda – “The Hidden Social Costs of Climate Change” – esplora proprio questo tema, finora molto poco investigato dall’analisi economica: il legame tra eventi climatici e decisioni relative alla mobilità di figli e figlie nelle famiglie rurali, e gli effetti economici, spesso non positivi, che ne derivano. Si tratta di un fenomeno di cui si parla poco, ma che coinvolge milioni di famiglie nell’Africa sub-sahariana e in altri contesti vulnerabili. Il lavoro fornisce una dimensione nuova sulla crisi climatica: non solo effetti sulle colture e sull’economia, ma anche sulle relazioni familiari e sui meccanismi di sopravvivenza dei nuclei rurali.
La mobilità dei figli – cioè il fatto che un figlio o una figlia lasci la propria famiglia per vivere altrove, temporaneamente o in modo permanente – è un fenomeno diffuso in molti Paesi in via di sviluppo. Le ragioni possono essere numerose: ricerca di opportunità di istruzione, trasferimento da parenti, lavoro, oppure situazioni più estreme come l’abbandono o la fuga. In Uganda, circa il 20% dei bambini non vive con i genitori biologici. Alle determinanti tradizionali, come povertà e disagio sociale, lo studio aggiunge un elemento nuovo e di crescente rilevanza: gli shock legati al cambiamento del clima, sottolineando come in Uganda le condizioni climatiche stiano peggiorando, con siccità ricorrenti, piogge imprevedibili, stagioni delle piogge sempre più instabili. Secondo Unicef, oltre 2,2 milioni di bambini vivono in aree colpite da siccità e alluvioni, per cui le famiglie si trovano sempre più spesso di fronte a scelte drammatiche.
La ricerca utilizza dati meteorologici ad alta risoluzione, come temperatura, precipitazioni e l’indice Spei (che combina piogge ed evapotraspirazione). In questo modo, gli autori possono analizzare la frequenza, negli anni precedenti, di due tipi di shock: eventi legati a piovosità estrema e periodi di siccità intensa. Questi shock sono incrociati con dati longitudinali provenienti dalla Uganda national panel survey, che seguono le stesse famiglie per più anni. Lo studio rivela un effetto asimmetrico: le piogge eccessive aumentano la probabilità che un figlio o una figlia lascino la famiglia; eventi piovosi intensi provocano spesso alluvioni, smottamenti, perdita di raccolti e danni alle infrastrutture. Ciò crea pressione sulle risorse delle famiglie, spingendole a considerare la mobilità di un figlio o una figlia come misura di adattamento.
Al contrario, durante le siccità le famiglie tendono a tenere i figli con sé. Lavorare la terra in condizioni difficili richiede più sforzo fisico, e i bambini, soprattutto i maschi, vengono considerati un aiuto indispensabile nelle attività agricole rurali. Le siccità scoraggiano la mobilità anche perché spesso coinvolgono interi territori, ad esempio riducendo la capacità dei parenti di accogliere nuovi membri. Lo studio evidenzia inoltre che le bambine sono meno frequentemente mandate via rispetto ai maschi, per ragioni che possono essere legate ad una maggiore vulnerabilità percepita.
Per comprendere questi comportamenti, gli autori propongono un modello teorico, dove la scelta di mobilità dei figli, per quanto drammatica, viene presa razionalmente, tenendo conto sia del valore affettivo sia dell’impatto economico, e cambia in base alle risorse del nucleo familiare, agli shock climatici vissuti in passato (che contribuiscono alla formazione di aspettative sui futuri shock da parte della famiglia), oltre che alla capacità lavorativa dei figli, che si ipotizza aumenti con l’età. Le famiglie più povere e più colpite da eventi estremi in passato sono quelle che con maggiore probabilità saranno costrette a rinunciare a tenere i propri figli in casa.
L’analisi empirica svolta dagli autori ha come domanda centrale: mandare via una figlia o un figlio aiuta davvero la famiglia a migliorare il proprio benessere? Per rispondere, gli autori utilizzano metodi econometrici avanzati (variabili strumentali climatiche per tener conto di problemi di endogeneità e analisi dinamiche degli effetti nel tempo), arrivando a conclusioni in parte inattese e comunque complesse.
In particolare, mentre la spesa pro-capite (alimentare e totale) sembra sperimentare un incremento temporaneo a seguito della mobilità dei figli (ma solo se l’età considerata è sufficientemente alta), il reddito agricolo diminuisce nel breve periodo. In ogni caso, l’analisi dinamica mostra che eventuali benefici economici si materializzano solo nel medio periodo, e non sono uniformi per tutte le famiglie.
In sostanza, la mobilità dei figli non è una soluzione miracolosa, né sempre efficace.
Quanto emerge dall’analisi svolta nel lavoro, la presenza e l’aggravarsi degli shock climatici rappresentano un ulteriore motivo per il rafforzamento di politiche di protezione dell’infanzia, adattamento al cambiamento climatico e lotta alla povertà delle famiglie rurali nei paesi in via di sviluppo.
Uno sviluppo veramente sostenibile non può non considerare le conseguenze sociali dei problemi ambientali. Guardare oltre l’aspetto ambientale della crisi climatica, in questo caso, significa rendersi conto che alluvioni e siccità non danneggiano “solo” raccolti e redditi: effetti più profondi e complessi, quindi più difficili da misurare, rendono ancora più oscuro il futuro delle famiglie rurali nei paesi in via di sviluppo, coinvolgendo le loro scelte e la loro vita. Si tratta di conseguenze difficili da quantificare, ma profondamente reali. E rappresentano uno dei numerosi “costi sociali nascosti” del cambiamento climatico.