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La crisi demografica costa all’Italia lo 0,9% del Pil all’anno: più servizi pubblici per invertire la rotta

L’analisi Bankitalia arriva in Parlamento: «Per progredire sono necessarie politiche pubbliche mirate»
 |  Green economy

L’Italia va configurandosi come un Paese sempre più povero di persone, e soprattutto di persone che lavorano. Perché se l’invecchiamento della popolazione è un processo globale, qui siamo alla frontiera della transizione: la popolazione residente è in calo ormai da dieci anni, come evidenziato da Andrea Bradolini – vice capo del dipartimento Economia e statistica della Banca d’Italia – nell’audizione alla Commissione parlamentare di inchiesta sugli effetti economici e sociali derivanti dalla transizione demografica.

Nel 2050 la popolazione di età compresa tra i 15 e i 64 anni sarà inferiore ai 30 milioni di unità, circa un milione in meno di quanto non fosse nel 1950; in altre parole, per ogni dieci persone in età da lavoro, vi saranno otto bambini e anziani, rispetto agli attuali sei. Le ricadute economiche e sociali di questa tendenza sono ampie.

«Nei prossimi venticinque anni, se i tassi di occupazione, gli orari di lavoro e la produttività oraria rimanessero immutati sui livelli attuali, il calo della popolazione in età da lavoro implicherebbe una diminuzione dell’input di lavoro e quindi del Pil dello 0,9 per cento all’anno», spiega Brandolini. Se i tassi di partecipazione al mercato del lavoro – per genere e classi di età – continuassero a crescere allo stesso ritmo dell’ultimo decennio, a parità di tutte le altre condizioni, il Pil calerebbe di quasi il 9% da qui al 2050.

Cosa possiamo fare per risalire questa china demografica? Le proposte avanzate dalla Banca d’Italia sono molte, ma ruotano attorno a pochi capisaldi: più servizi territoriali, più formazione continua, flussi migratori regolari.

L’immigrazione, ad esempio, è stata finora «cruciale» per colmare i vuoti creati nel mercato del lavoro dal declino della popolazione autoctona. Nel 2024 gli stranieri rappresentavano il 10,5 per cento dell’occupazione totale, ma raggiungevano il 15,1 per cento tra gli operai e gli artigiani e il 30,1 tra il personale non qualificato; erano il 16,9 per cento nelle costruzioni e il 20,0 in agricoltura. I lavoratori immigrati per lo più svolgono occupazioni di bassa qualità e peggio retribuite, meno accette ai lavoratori italiani. Per la Banca d’Italia servono dunque «politiche che garantiscano flussi migratori regolari che incontrino le necessità delle imprese e assicurino un’integrazione completa per chi arriva nel Paese».

Poi c’è la partita delle competenze, partendo da un dato di fondo: dal 1950 al 2024, il Pil reale pro capite è aumentato di 6,7 volte, a un tasso medio annuo del 2,6 per cento, e l’aumento è «interamente attribuibile» al miglioramento della produttività del lavoro. Però dal 2000 la produttività (oraria) del lavoro è rimasta sostanzialmente stagnante, e questo ha a che fare (anche) con la diffusione delle nuove tecnologie e le scarse competenze dei lavoratori italiani

«L’allungamento della vita lavorativa e il rapido progresso tecnologico rafforzano la necessità di considerare l’accumulazione di capitale umano come un investimento lungo tutto l’arco della vita», osserva nel merito Bankitalia, sottolineando che «la formazione continua e la riqualificazione dei lavoratori adulti assumono quindi un’importanza pari a quella dell’istruzione formale […] In un contesto di diminuzione della popolazione in età da lavoro, l’automazione potrebbe al contrario offrire la possibilità di conseguire livelli di produttività più elevata, sopperendo al ridimensionamento dell’offerta di lavoro».

Infine, naturalmente, c’è da affrontare il nocciolo di fondo della crisi demografica: il tasso di fecondità è da tempo diminuito al di sotto della soglia di 2,1 figli per donna, il valore che manterrebbe la popolazione stazionaria nel lungo periodo, per assestarsi nel 2024 al minimo storico di 1,18 figli per donna. Non solo, i giovani sono una risorsa sempre più scarsa ma evidentemente non considerata preziosa, visto il basso tasso di occupazione giovanile (i giovani che non lavorano né partecipano a corsi di studio o formazione rappresentano il 15,2 per cento dei giovani tra i 15 e i 29 anni).

Che fare? «L’offerta di servizi – risponde Bankitalia – è più efficace dei trasferimenti monetari nel permettere alle giovani coppie di realizzare i propri desideri circa il numero di figli». In particolare, è importante il rafforzamento dei servizi educativi per la prima infanzia, ma non solo, come mostra la storia delle aree interne dove il declino demografico è già oggi più accentuato.

Nelle regioni meridionali alla riduzione della natalità si aggiunge un consistente deflusso di popolazione giovanile verso le regioni centro-settentrionali: negli ultimi due decenni le migrazioni interne hanno ridotto la popolazione del Mezzogiorno di oltre 900.000 persone, per più del 70% giovani fra i 15 e i 34 anni e per quasi un terzo laureate.

«I flussi migratori dal Sud al Nord del Paese sono guidati da molteplici motivazioni, economiche e non – conclude nel merito Bankitalia – Vi rientra la ricerca di migliori opportunità di studio e di lavoro, ma anche fattori ambientali quali l’offerta dei servizi pubblici locali». Che possono essere dunque non solo presidi per la transizione ecologica, ma anche leve per invertire la crisi demografica del Paese.

Redazione Greenreport

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