
Cfd, Ppa e la sfida del disaccoppiamento per abbassare i costi dell’elettricità con le rinnovabili

Nel 2022 il prezzo medio all’ingrosso dell’elettricità in Italia ha superato i 200 €/MWh durante i picchi invernali, quasi tre volte il costo medio degli ultimi cinque anni. Ciò è paradossale, vista la crescita dell’energia rinnovabile, che avrebbe dovuto abbattere drasticamente i costi e dunque abbassare i prezzi. Questo paradosso è una conseguenza del meccanismo marginale europeo, che assegna a tutti i MWh il costo dell’ultima centrale necessaria per coprire la domanda – quasi sempre a gas – trascinando in alto il prezzo anche delle rinnovabili a costo quasi zero. Con l’avvento dell’ETS2 nel 2027, che estenderà il prezzo del carbonio a edifici e trasporti, le bollette rischiano di salire ulteriormente, penalizzando famiglie e imprese già in difficoltà finanziaria.
L’Italia si trova così intrappolata in una gabbia di prezzi: mentre la produzione rinnovabile cresce, il costo di riferimento rimane ancorato al gas, trasformando ogni picco del metano in un’ondata di rincari per l’elettricità.
Quando il marginalismo punisce le rinnovabili
Il modello di mercato elettrico europeo remunera tutte le fonti al prezzo dichiarato dall’ultimo impianto marginale necessario per soddisfare la domanda. Oggi quel ruolo spetta quasi sempre alle centrali a gas, i cui elevati costi variabili fissano un prezzo di equilibrio molto alto. Il risultato è che le rinnovabili, il cui costo di produzione è pressoché nullo, incassano lo stesso prezzo elevato, senza che il loro apporto riduca concretamente la bolletta finale.
In audizione al Senato, Mario Draghi ha definito questa situazione «inammissibile», ricordando che nel 2022 il gas ha fissato il prezzo dell’elettricità per il 60% delle ore in Europa e per il 90% di quelle italiane. Ha suggerito di interrompere il legame automatico tra gas ed elettricità, sottolineando la necessità di strumenti contrattuali alternativi. Tra queste alternative troviamo i Contracts for Difference (Contratti per Differenza) e i Power Purchase Agreements (Accordi per Acquisto dell’Energia).
Contratti per Differenza: spezzare il legame con il gas
I Contracts for Difference (CfD) sono dei contratti a lungo termine in cui una parte, il produttore, costituisce e gestisce un impianto di produzione (tipicamente rinnovabile), e l’altra parte, un ente pubblico o un soggetto obbligato tipo il GSE, garantisce al produttore un prezzo fisso, denominato “strike price”, per ogni MWh prodotto.
Questi contratti isolano i produttori rinnovabili dall’alta volatilità del mercato elettrico e, soprattutto, rompono il legame tra prezzo del gas e remunerazione delle rinnovabili. Il meccanismo di base è il seguente: se il prezzo di mercato (market price) è inferiore allo strike price, lo Stato (o l’ente gestore) paga la differenza al produttore. Se, invece, il prezzo di mercato è superiore allo strike price, il produttore restituisce la differenza allo Stato. Questo sistema stabilizza le entrate del produttore, incentivando investimenti in nuova capacità rinnovabile e, a lungo termine, abbatte la volatilità dei prezzi dell’energia.
I benefici in bolletta - I CfD sono pensati per condividere il rischio e il beneficio tra produttori e consumatori. Quando i prezzi sono bassi, i consumatori non vedono un beneficio diretto immediato (lo Stato paga ai produttori la differenza per assicurare la continuità dell’investimento). Quando i prezzi sono alti, i produttori rimborsano la differenza allo Stato, che può ridurre i costi in bolletta.
Le somme restituite dai produttori vengono imputate a riduzione delle tariffe di rete e di sistema (in Italia gestite dall’ARERA), meccanismo che dovrebbe calmierare i costi per famiglie e imprese. Un esempio emblematico è il Regno Unito, dove questo sistema ha effettivamente ridotto le bollette in periodi di prezzo elevato grazie ai CfD già attivi su larga scala (es. eolico offshore).
In Italia, il GSE ha già sperimentato CfD pilota su alcuni impianti eolici e fotovoltaici, ma la vera svolta arriverà con la riforma europea che renderà obbligatori i CfD per tutte le nuove installazioni: questo aiuterà auspicabilmente la stabilità per le imprese e promuoverà un impulso agli investimenti nelle energie rinnovabili. Nel frattempo, sono stati introdotti (attraverso il DL Aiuti bis e ter) tetti temporanei ai ricavi: sopra una certa soglia, le eccedenze sono prelevate dallo Stato e non dal produttore. Tuttavia, si tratta di un meccanismo emergenziale e non strutturale, che non porta a benefici a lungo termine.
I Power Purchase Agreements (PPA) sono contratti a lungo termine bilaterali tra un produttore di energia rinnovabile e un acquirente (spesso un’industria energivora o un grande retailer). Questi contratti stabiliscono un prezzo fisso per l'energia fornita, offrendo stabilità sia al produttore, che può pianificare gli investimenti con maggiore certezza, sia all'acquirente, che si protegge dalle fluttuazioni dei prezzi di mercato. In Italia, l'adozione dei PPA è ancora limitata, ma in crescita. Secondo uno studio di Cerved, oltre 3.700 imprese energivore potrebbero risparmiare fino a 4 miliardi di euro nei prossimi tre anni adottando PPA, coprendo quasi 10.000 GWh l’anno dei propri consumi con energia fotovoltaica e evitando l’emissione di 4 milioni di tonnellate di CO2. Come? Ecco i punti chiave:
Prezzo contratto: fissato in anticipo, può essere un valore fisso o indicizzato (es. all’inflazione).
Quantità garantita: il contratto specifica i MWh minimi che il produttore si impegna a fornire e l’acquirente ad acquistare. Spesso include penali in caso di inadempienza.
Durata pluriennale: solitamente tra 10 e 15 anni, con opzioni di rinnovo o revisione a metà periodo.
In breve, il produttore sviluppa o utilizza un impianto rinnovabile, l’acquirente paga il prezzo stabilito per l’energia effettivamente consegnata, indipendentemente dalle fluttuazioni del mercato spot. Eventuali eccedenze di produzione o differenze rispetto al minimo contrattuale possono essere regolate sul mercato, secondo clausole di flessibilità concordate.
I vantaggi dei PPA sono la prevedibilità di costo per l’acquirente, che può pianificare budget energetici a lungo termine; la facilitazione del finanziamento del progetto, ossia che la banca valuta il PPA come garanzia di ricavo; infine, l’allineamento ESG, le aziende migliorano il proprio profilo di sostenibilità certificando l’acquisto di energia verde.
Nonostante questi vantaggi, sono presenti sfide, come ad esempio la necessità di abbassare i rischi con meccanismi come garanzie per coprire mancati ritiri o mancata produzione, o il fatto che le controparti devono essere solide, e dunque credit worthy.
In sintesi, CfD e PPA sono strumenti complementari: i primi agiscono sul versante regolatorio per stabilizzare l’intero mercato, i secondi rispondono a esigenze contrattuali di produttori e grandi consumatori, favorendo l’espansione delle rinnovabili con ricadute indirette su tutto il sistema: stabilità per le imprese, impulso agli investimenti
Rendite inattese: il caso idroelettrico
Senza sistemi di correzione di prezzo, le grandi centrali idroelettriche godono di una rendita consistente. Ciò dipende dal fatto che, con costi marginali di produzione tra 5 e 30€/MWh, queste centrali vendono al prezzo marginale fissato dal gas, che in fase di crisi può superare i 150€/MWh. La differenza si traduce in profitti straordinari, incassati a scapito dei consumatori.
A complicare il quadro, molte concessioni idroelettriche di grande derivazione sono scadute da anni senza nuove gare. Le società concessionarie operano in regime di proroga, pagando canoni simbolici mentre accumulano extra-profitti.
Una riassegnazione delle concessioni con criteri ambientali e sociali, canoni variabili legati alla produzione e obblighi di reinvestimento, rappresentano l’unico strumento per eliminare questa rendita parassitaria. Questo è ciò che è stabilito dalla Direttiva Servizi 2006/123/UE, che definisce procedure di selezione per l’assegnazione delle concessioni, evitando rinnovi automatici e privilegi per i concessionari uscenti. I criteri che dovrebbero orientare le gare di riassegnazione sono i seguenti:
Criteri ambientali, per garantire la sostenibilità ambientale del prelievo e manutenzione dei bacini e opere connesse come dighe, canali, serbatoi;
Criteri sociali, per supportare l’occupazione e il territorio;
Canoni variabili al posto di quelli simbolici, per promuovere equità e legittimità dei costi;
Obblighi di reinvestimento su innovazione tecnologica, efficienza energetica e sicurezza degli impianti;
Incentivazione a modelli misti di gestione, ossia di partenariati pubblico-privati o società miste che assicurerebbero più trasparenza e controllo.
Dagli ideali europei alla realtà italiana, tuttavia, la strada è costellata di contraddizioni e compromessi. Per assecondare la normativa europea, il decreto Milleproroghe imponeva alle Regioni italiane di indire le gare per la riassegnazione delle concessioni entro il 2023. Questo termine è stato prorogato di altri 12 mesi con un emendamento al decreto. Nel 2025, però, l’emendamento è stato ritirato e declassato in un ordine del giorno, procrastinando ulteriormente la risoluzione di questa situazione e provocando ulteriore incertezza e confusione nel settore.
Le regioni, costrette a prendere decisioni autonomamente, seguono strade diverse. Da una parte abbiamo il Veneto, che risolve l’inconsistenza normativa con una legge regionale, prorogando le concessioni fino al 2029. Soluzione comprensibile, che però è stata impugnata dal Governo perché in contrasto con la normativa nazionale ed europea. In una Lombardia più proattiva, invece, la messa a gara di due concessioni (Resio e Codera Ratti-Dongo) in favore di realtà nazionali o internazionali incontra lo sfavore dei sindacati, che la percepiscono come un rischio di perdita di valore per lavoratori e comunità locali, a causa di mancanza di legame col territorio.
Di proroga in proroga, ad oggi moltissime delle concessioni idroelettriche in Italia (oltre l’80%) sono scadute o in scadenza entro il 2029; tuttavia, non è chiaro se saranno rinnovate agli operatori esistenti o messe a gara come prevedono gli obblighi derivanti dalla normativa comunitaria.
Famiglie in trincea
Le famiglie possono contare solo su misure accessorie: i bonus sociali per redditi bassi producono un risparmio di una decina di euro al mese, mentre le detrazioni fiscali per efficientamento e fotovoltaico riducono il costo degli interventi ma non incidono sulla bolletta corrente. Le comunità energetiche offrono potenziali sconti fino al 30%, ma richiedono tempo, coordinamento e capitale che la maggior parte dei nuclei familiari non dispone. Di fronte a un mercato plasmato dal marginalismo, il cittadino resta spettatore: può solo attenuare marginalmente l’impatto dei rincari, senza avere leve reali per influenzare il prezzo.
Un disaccoppiamento possibile
Spezzare definitivamente il legame tra gas ed elettricità richiede un pacchetto organico di interventi: estendere i CfD a tutte le rinnovabili, riformare le concessioni idroelettriche con gare trasparenti e canoni legati alla produzione, potenziare supporto e semplificazioni per le comunità energetiche e ristrutturare il bonus sociale con obiettivi di efficienza misurabili. Solo un approccio integrato potrà trasformare il disaccoppiamento da slogan in realtà, stabilizzare il mercato e restituire alle famiglie e alle imprese un equilibrio perduto.
a cura di Ilaria Dibattista
