Senza sostenibilità non è possibile “reindustrializzare la Toscana”
È difficile immaginare un contributo più autorevole di quello che studiosi quali Marco Buti, Stefano Casini Benvenuti ed Alessandro Petretto offrono al dibattito (anche a quello pre-elettorale) sul futuro dell’economia toscana con il loro “Manifesto” intitolato: “Reindustrializzare la Toscana”. Si tratta di un documento denso, ricco di spunti anche concretamente operativi (ad esempio, in materia di fiscalità regionale). Così pure non si può che concordare sul rischio gravissimo di una “terziarizzazione povera” e sull’obiettivo auspicato: “puntare ad attività nel manufatturiero e nei servizi a più alto valore aggiunto, il che significa ad alti salari e alta produttività”.
Re-industrializzare allora? Scommettere sulla Toscana manifatturiera è – lo riconoscono gli stessi autori – una scelta rischiosa con settori strutturalmente vocati all’export, come ci ricordano i dazi di Trump. L’era della globalizzazione, almeno come la conoscevamo e definivamo nel recente passato, è finita e la ricostruzione di catene del valore affidabili eccede di molto gli spazi di manovra di una politica industriale regionale. Gli autori sembrano suggerire che una maggiore “toscanità” delle filiere possa essere una garanzia. Di cosa? Di quell’innovazione che, a cominciare dal settore della moda, proprio la connessione con filiere globali ha invece realizzato?
I limiti della storia manifatturiera della Toscana non possono d’altronde essere dimenticati. La re-industrializzazione non può avvenire senza una riflessione critica sul passato ed in particolare sui troppi e gravi tributi in termini di sostenibilità sociale ed ambientale che i modelli di sviluppo industriale qui perseguiti hanno comportato. Ed è forse casuale che il Manifesto non usi mai le parole sostenibile o sostenibilità, ma forse casuale non lo è.
Quanto al turismo, riconosciuto come “storica vocazione produttiva” a fianco della manifattura, il Manifesto chiede giustamente che le due vocazioni siano “governate congiuntamente”. Gli autori, tuttavia, non vedono nel turismo un’opportunità di sviluppo e di innovazione da integrare alla manifattura, ma – con un’analisi sorprendentemente sommaria – avvertono un rischio di spiazzamento a favore di attività fondate sulla rendita, che “compromettono lo sviluppo di più lungo periodo della regione”.
Tutto il testo trasmette una sensazione persistente di déjà vu. La diagnosi è quella che leggiamo ormai da più di trent’anni: piccola dimensione d’impresa, problemi di passaggio generazionale, incapacità di sostenere le start-up innovative, etc. etc. Pluridecennale è anche la prescrizione delle politiche, tanto ragionevoli quanto evidentemente disattese. Forse il “cambio di passo” che si chiede alle politiche dovrebbe essere realizzato anche da noi che le politiche studiamo e contribuiamo a definire.
Quello che però lascia più perplessi è l’invocazione finale di “un nuovo partenariato per la reindustrializzazione della Toscana”, un “partenariato avanzato tra corpo intermedi (attori economici e sociali, associazioni) e attori istituzionali”. Nuovo? Avanzato? È veramente solo un problema di “sguardo corto”, “tasso di sconto politico”, “frammentazione”, “processi decisionali oggi lunghi ed inefficaci”?
In realtà, gli autori del Manifesto dichiarano a priori di condividere “una visione positiva della vitalità imprenditoriale del nostro territorio, della vivacità della società civile e del ruolo dell’operatore pubblico e delle parti sociali”. Eppure, nel lungo arco temporale del declino, che oggi ci consegna una Toscana – dice il Manifesto – alla sua “ultima chance”, questa regione ha sperimentato un’eccezionale continuità nel governo delle istituzioni, nel loro rapporto con l’economia e con la società, nelle leadership imprenditoriali, nel ruolo dei corpi intermedi e, ovviamente, negli assetti di potere, che ne conseguono. Ed è del tutto legittimo interrogarsi, in termini ben più radicali, se non esista un qualche nesso tra quel declino e questa continuità.