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Per soddisfare la Nato e l’ego di Trump, l’Italia s’impegna a triplicare la spesa in difesa. Ma senza investimenti su transizione ecologica e sociale non c’è sicurezza per i cittadini

 |  Editoriale

Si è concluso ieri a L’Aja il vertice Nato guidato dal Segretario generale dell’Alleanza atlantica, Mark Rutte, in cui gli Stati membri – tra cui l’Italia guidata da Giorgia Meloni – hanno siglato un nuovo Defence investment plan per portare entro il 2035 la spesa per la difesa al 5% dei Pil nazionali.

«Una mossa pensata per compiacere gli Stati Uniti, ma che riflette anche l’urgenza europea di prepararsi a un possibile ridimensionamento della presenza americana nel continente», sottolineano dall’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi).

Per quanto effimero, il risultato più concreto è il primo dei due, come reso esplicito dal messaggio privato inviato da Rutte a Trump – poi pubblicato dal presidente Usa sul suo social network Truth – in cui gli faceva i complimenti per il “grande successo” che si profilava al vertice: “L’Europa pagherà il suo contributo in modo consistente, come è giusto che sia, e sarà una tua vittoria. Otterrai qualcosa che nessun altro presidente americano è riuscito a fare in decenni. Non è stato facile ma siamo riusciti a far sì che tutti si impegnino a raggiungere il 5%”. In altre parole, il vertice Nato è stato organizzato per adulare Trump e far sì che la forza militare statunitense non abbandoni l’Alleanza atlantica.

Anche l’obiettivo di spesa concordato sulla difesa è un artificio contabile che s’inserisce appieno in quest’approccio. Il 5% sul Pil si divide infatti in un 3,5% – obiettivo ricalcato sull’attuale livello di spesa militare degli Stati Uniti – in spese militari tradizionali (come armi, mezzi, munizione, costi operativi, stipendi e pensioni delle forze armate, missioni internazionali) e un ulteriore 1,5% – per raggiungere il 5% richiesto da Trump – in spese per la sicurezza nazionale in senso lato, il che significa cybersicurezza, resilienza delle infrastrutture critiche (centrali elettriche e reti di telecomunicazione terrestri e satellitari), efficientamento delle infrastrutture strategiche di mobilità militare (ferrovie, strade, ponti, porti e aeroporti), difesa delle frontiere, mezzi e personale delle forze di polizia militare, presidi medici contro attacchi nucleari-chimici-batteriologici, chimici e batteriologici e altri capitoli di spesa.

«Risulta evidente – spiegano dall’Osservatorio sulle spese militari italiane (Milex) – che l’obiettivo dell’1,5% in sicurezza sarà agevolmente conseguibile solo conteggiando sotto questa voce una vasta gamma di spese già sostenute o già programmate, per di più con la possibilità di attingere ai fondi europei del Pnrr. La vera sfida, dal punto di vista finanziario, riguarda dunque il raggiungimento dell’obiettivo del 3,5% in spese militari “pure” per le quali andranno reperite risorse nuove nel bilancio dello Stato».

Per l’Italia si tratta dunque di passare dagli attuali 35,3 miliardi di euro/anno in spese militari a 101,8 mld di euro stimati al 2035, triplicando la spesa attuale aggiungendo circa 70 miliardi di euro. Se contassimo gli incrementi annui per arrivare gradualmente al target 2035, significherebbe sborsare quasi 700 mld di euro in un decennio, ma è uno scenario altamente improbabile. È vero che l’accordo Nato prevede un impegno “incrementale” e “credibile” ma spicca l’assenza di target di spesa annuali da rispettare; è anzi prevista una revisione degli impegni nel 2029, con l’evidente speranza che per allora non ci sia più Trump alla presidenza Usa.

milex spese militari

Basti osservare a cosa è accaduto a quello che fino a ieri era l’impegno di spesa concordato (in Galles, nel 2014) dagli alleati Nato, ovvero il 2% sul Pil. L’Italia nel 2014 spendeva l’1,14% del Pil in difesa, e nel 2024 era ancora all’1,54%; guardando alle spese militari core, il dato è oggi all’1,57%, ma il Governo Meloni afferma di aver conseguito l’obiettivo del 2% con un salto di ben 9,7 miliardi dall’anno scorso, grazie a un artificio contabile: è stato realizzato conteggiando anche le spese correnti in ambito cyber, spazio, telecomunicazioni, mobilità militare e quelle per altri corpi militari come Guardia costiera e della Guardia di finanza (stipendi, pensioni, armi e mezzi), ma senza incrementare di fatto il livello di spesa statale.

In teoria, dunque, l’attuale spesa core (1,57%) dovrà salire al 3,5% entro il 2035, mentre quella più ampia (2% attuale) punterà nello stesso periodo al 5%. È plausibile che l’incremento di spesa non avvenga in modo progressivo e che, al contempo, venga impiegata grande creatività per usare tutte le scappatoie contabili possibili, ma è comunque significativo – ed estremamente preoccupante – che con grande leggerezza l’Italia abbia siglato un accordo formale che ci impegna a spendere 70 miliardi di euro in più in spesa militare entro un decennio.

Si tratta, infatti, di un accordo che non va a incidere sulle reali necessità di maggiori investimenti in difesa europea – per la quale non necessariamente dovremmo aumentare i bilanci dedicati, ma coordinare meglio gli investimenti tra Stati membri Ue e le relative forze armate –, e che al contempo drena risorse per lottare contro minacce alla sicurezza ancora più gravi della Russia di Putin: oggi nel nostro Paese 13,5 milioni di persone sono a rischio povertà o esclusione sociale, oltre 50mila l’anno muoiono per inquinamento atmosferico, più di 10mila l’anno per ondate di calore, e solo nel 2024 abbiamo speso 48,5 miliardi di euro per l’importazione dei combustibili fossili che indeboliscono la nostra sicurezza energetica e geopolitica.

Eppure l’Italia non si è data un target di spesa sul Pil per gli investimenti in transizione ecologica e giustizia sociale, preferendo l’adesione acritica a una retorica bellicista che non porta maggiore sicurezza, ma drena risorse e attenzioni dalle vere priorità del Paese.

Luca Aterini

Luca Aterini, toscano, nasce settimino il 1 dicembre 1988. Non ha particolari talenti ma, come Einstein, si dichiara solo appassionatamente curioso: nel suo caso non è una battuta di spirito. Nell’infanzia non disegna, ma scarabocchia su fogli bianchi un’infinità di mappe del tesoro; fonda il Club della Natura, e prosegue il suo impegno studiando Scienze per la pace. Scrive da sempre e dal 2010 per greenreport, di cui è oggi caporedattore.