Skip to main content

Rimpiazzare il turismo di massa con quello di lusso non ha niente di sostenibile. Da Venezia e Firenze, le nostre celebri città cosa offrono oggi al turista medio se non esperienze standardizzate e prezzi speculativi?

 |  Editoriale

Nella lotta all’overtourism scendono in campo, a sorpresa, alcuni operatori economici. A fine luglio hanno fatto rumore le dichiarazioni di un noto gioielliere di Piazza San Marco: “questo turismo è osceno. C’è un’esplosione totale di overtourism mai vista prima, con una tipologia di persone che vaga senza entrare nei negozi e senza neppure sapere dov’è […] Ci sono file alle fontanelle per prendere dell’acqua perché non si compra più nemmeno quella. Mi domando, ma dov’è la bella gente, quella interessata alla città, quella che porta davvero qualcosa alla città?” La soluzione? “Credo che si debba mettere una soglia almeno ai granturismo e, aggiungo, a queste persone farei pagare 100 euro a testa”.

Gli ha fatto eco, dopo pochi giorni, un altrettanto noto ristoratore fiorentino, per cui “il centro è invaso da turisti che mangiano un solo piatto, si portano l’acqua da casa, non ordinano nemmeno un calice di vino e pretendono di non pagare il coperto […] intasano le strade a piedi, si siedono ovunque, anche per terra. Lasciano rifiuti, riempiono i cestini, sporcano. E poi non spendono”. Una “folla rumorosa, disordinata e senza regole” che va “contingentata”.

Sono prese di posizione che devono essere prese sul serio e non solo come sfoghi, magari strumentali con quel loro cavalcare la semantica ad effetto di molti media. Già Adam Smith ci ammoniva a riflettere su cosa significasse, nel bene e nel male, essere una “nation of shopkeepers” ed avere un governo che dagli shopkeeper è influenzato.

È in effetti da tempo che politici di varia estrazione sembrano simpatizzare con quelle strategie di destinazione che mirano a rafforzare la componente turistica “altospendente”. Questo orrendo anglicismo è assai utile a dare un tono tecnico e politicamente corretto all’ipotesi di fondo, ossia che la sostituzione almeno parziale del turismo di massa con turisti ad alto reddito e ad alta propensione alla spesa crei più fatturato con minore impatto. Meno “orde” di vacanzieri e più viaggiatori ricchi: è questa la via alla sostenibilità del turismo, che ci raccomandano i nostri shopkeeper?

Non vi è dubbio che il turismo di lusso abbia espresso pratiche virtuose su vari aspetti della sostenibilità, da quella ambientale a quella sociale. Ma non possiamo neppure dimenticare quante volte esso si conformi a modelli del tutto estranei al contesto locale e sia tentato dall’appropriazione culturale, secondo quell’ineguagliabile paradigma che sono le pizze di Flavio Briatore.

Il rifiuto del “turismo di massa” genera dunque divieto del turismo alle masse? La sostenibilità dovrà dunque necessariamente affidarsi alla micidiale combinazione di muscolari regolazioni, esosi balzelli e prezzi escludenti?

La grande sfida sta oggi proprio nel capire con quali altre modalità il turismo dei grandi numeri possa essere sostenibile laddove è inevitabile, come in luoghi iconici quali Venezia e Firenze (a meno di non privatizzarli a favore del Bezos di turno…). È allora necessario guardare un po’ più da vicino questa “massa”, che pigrizia intellettuale e modestia imprenditoriale trovano comodo vedere come realtà indistinta e degradata, con un disprezzo spocchioso che vorrebbe legittimare eticamente lo sfruttamento economico più sfacciato.

Invece di limitarsi a massimizzare (o a rimpiangere) le nostre comode rendite di posizione, sarebbe ora di aprire un dialogo con il “turista straccione”, cominciando a capire quanto di buono invece ci sia nei suoi comportamenti. Essi riflettono la crescente tensione tra le difficoltà economiche dei ceti medi e il loro bisogno identitario di viaggiare e quindi chiedono platealmente di rivedere il rapporto tra prezzi e qualità dell’offerta turistica.

Merita attenzione e rispetto il “turista degli spiccioli”: preferisce comprare un biglietto di museo piuttosto che visitare una gioielleria; si interroga su cosa abbia di speciale quel calice di vino a parte qualche rituale del luogo che lo costringe a berlo su un marciapiede tra i passanti; se vuole viaggiare in famiglia, deve moltiplicare per tre o per quattro il costo già elevato di un panino “autentico” ed una cena in pizzeria diventa un investimento; si accontenterebbe di una caraffa di quella buona acqua del rubinetto, che i residenti sono invitati a bere dalle loro istituzioni, invece che dell’ennesima costosa bottiglia di plastica; e magari osa domandarsi quale autenticità ci sia nell’italica usanza di far pagare il “coperto”.  Con tutto ciò, oggi rischia pure di prendersi una di quelle pistolettate ad acqua, che raramente bagnano gli “altospendenti”.

Ma le nostre destinazioni più celebrate e più congestionate cosa offrono oggi a quel turista se non esperienze standardizzate e prezzi speculativi? Non tutto è responsabilità delle politiche pubbliche. Risposte importanti sono venute e possono venire da quegli operatori che abbiano la voglia di leggere meno banalmente il loro mercato e il coraggio di scoprirsi imprenditori invece che rentier.

Nicola Bellini

Nicola Bellini è professore ordinario di Economia e gestione delle imprese, presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Insegna economia del turismo presso la Fondazione Campus – Università di Pisa e management del turismo culturale a IULM (Milano). Dal 2009 al 2011 è stato direttore dell’Istituto regionale per la programmazione economica della Toscana (IRPET). Nel corso del 2022 è stato esperto della Commissione Europea per la valutazione ex ante della priorità “Turismo sostenibile” nell’ambito del programma “Agenda Urbana dell’Unione Europea”.