Skip to main content

Investimenti in R&S per rispondere ai dazi di Trump: ecco perché servono più politiche ambientali. La via maestra per l’innovazione resta la green economy, che permette anche di rispondere a problemi localmente rilevanti come l’inquinamento

 |  Editoriale

Le strategie economiche e commerciali dell’amministrazione Trump – imperniate sui dazi – nascono da una condizione di fragilità strutturale degli Stati Uniti. Washington resta una superpotenza, ma con un livello di indebitamento elevato, in particolare verso la Cina, un dollaro debole e un sistema cui resta la leva della potenza militare come strumento di pressione. Trump sta provando anche a imporre alla Federal Reserve una politica monetaria più espansiva, ma l’operazione si scontra con i classici trade-off macroeconomici: dazi, restrizioni migratorie e stimoli monetari rischiano di generare inflazione, con ricadute dirette sui prezzi al consumo e sul potere d’acquisto degli elettori americani.

Una svalutazione del dollaro potrebbe mitigare il deficit commerciale Usa, ma al prezzo di una crescita dell’inflazione: dunque l’aumento dei prezzi resta un nodo critico di medio periodo, con cui l’amministrazione Trump sarà chiamata a fare i conti.

In questo quadro, gli importi concordati con l’Ue per l’import di combustibili fossili nel Vecchio continente appaiono poco realistici. I deficit commerciali e i saldi dei pagamenti riflettono condizioni strutturali consolidate: il disavanzo statunitense, il surplus di Giappone, Cina ed Europa sono frutto di dinamiche profonde, difficili da modificare nel breve periodo. Il vero cambiamento starà nello spostamento del baricentro dei consumi, dal cittadino americano alla crescente classe media dei Paesi emergenti, in particolare in Asia. Nei prossimi dieci anni si prevede l’ingresso di un miliardo e mezzo di nuovi consumatori, un processo che potrebbe ridisegnare i flussi commerciali globali.

Ma oggi il deficit Usa deriva anche dalla debolezza dell’export manifatturiero e dal ruolo storico del consumatore americano come motore della domanda globale. In questo contesto, i dazi non possono modificare i fondamentali, mentre il rischio resta quello di alimentare un circolo vizioso: più inflazione, dollaro più debole, ulteriore inflazione. È uno dei motivi per cui la Federal Reserve appare cauta nel rilanciare ulteriormente la leva monetaria.

La Cina – pragmaticamente confuciana – attende operosa. Il gigante asiatico registra livelli di spesa in ricerca e sviluppo (R&S) già superiori a quelli europei. È un segnale per l’Europa: uscire dalla sola ossessione per il debito e investire in innovazione, anche senza trascurare la spesa per la difesa, come suggerisce il nuovo Governo tedesco. Il nodo europeo è infatti politico ma anche militare: l’assenza di una politica estera e fiscale comune e di un’indipendenza strategica limita il peso dell’Ue nei negoziati globali. In quest’ottica l’R&S va vista come strumento di politica estera, economica e di innovazione, capace di aumentare autonomia e capacità di influenza. Senza dimenticare che pure un pacifista ecologista come Alexander Langer – di cui ricorre il trentennale della scomparsa – ricordava la necessità di affrontare anche il tema militare in un’ottica di indipendenza europea.

Ma per spingere davvero l’innovazione la via maestra resta quella delle politiche ambientali a livello nazionale, che permettono al contempo di rispondere a problemi localmente rilevanti, come nel caso dell’inquinamento atmosferico: è la stessa Agenzia europea dell’ambiente (Eea) a ricordaci che l’Italia svetta ancora in testa tra i Paesi più inquinati dell’Ue – con 48.600 morti l’anno per inquinamento da Pm2.5, 13.600 decessi prematuri da O3 e 9.600 da NO2 –, senza dimenticare gli impatti dell’inquinamento atmosferico in termini di riduzione della produttività del lavoro, documentati dall’Ocse.

Si tratta dunque di ripensare il Green deal come strategia industriale, e non solo ambientale, per lo sviluppo sostenibile dell’Ue. In quest’ottica, accanto agli investimenti interni in R&S in grado di rispondere alla necessità d’innovazione nel tessuto economico oltre che alle sfide ambientali, è dunque necessario insistere su uno strumento come il Carbon border adjustment mechanism (Cbam), che può essere una leva per favorire la competitività europea stimolando al contempo una convergenza nei Paesi emergenti, che esportano verso l’Ue.

La ricerca e sviluppo in Europa resta deficitaria: eppure è questa la principale leva per competitività e sostenibilità nel lungo periodo, ma richiede una strategia condivisa. Al contrario surplus e deficit commerciali, così come la forza delle valute, sono rimasti stabili negli ultimi 25-30 anni: i dazi e le restrizioni migratorie non modificano queste dinamiche, ma possono alimentare pressioni inflazionistiche. Non è una buona notizia per gli Stati Uniti, dove un ulteriore elemento di debolezza è oggi lo smantellamento della rete di cooperazione internazionale dell’Usaid e dei rapporti storici con Regno Unito e altri partner. Si tratta di un soft power che Washington sta indebolendo sotto l’amministrazione Trump, lasciando spazio ad altri attori: la Cina è presente in Africa da decenni, investendo in infrastrutture e risorse strategiche, spesso senza proclami ma con continuità. Uno spazio che anche l’Europa potrebbe occupare, se decidesse di farlo.

Massimiliano Mazzanti

Massimiliano Mazzanti è professore ordinario in Politica economica nel dipartimento di Economia e management dell'università di Ferrara. Insegna Macroeconomia e Environmental economics all'università di Ferrara. È direttore del centro di ricerca interuniversitario SEEDS (Sustainability, environmental economics and dynamics studies) e di Cercis - Centro per la ricerca sull’economia circolare, l’innovazione e le Pmi. Si occupa di dinamiche di innovazione ambientale, politica ambientale per rifiuti e clima, relazioni tra performance economiche ed ambientali.