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Houston we have problems in Belém. Il mondo va al contrario e, a meno di miracoli, ogni impegno per il clima nella COP30 di Belém sarà riaffondato sulla scia delle ultime fallimentari Conferenze Onu

 |  Editoriale

Belém do Pará, la capitale dello Stato del Parà brasiliano fondata dai portoghesi nel 1616 sulla sponda sud della baia di Marajò in riva destra del Rio Guamá come prima colonia europea in Amazzonia, oggi con 1,4 milioni di abitanti, che evocava Betlemme di Gesù di Nazareth, oggi non evoca miracoli climatici. Nonostante tutte le ricerche scientifiche - l’ultima dell’Organizzazione meteorologica mondiale - calcolino emissioni di gas serra al top con un riscaldamento globale a livelli record segnalato dalla progressione negli anni 2023-2024-2025 più caldi del secolo. Nonostante la certezza dell’aumento drammatico tra 2 e 2,5 °C a fine secolo, superando il già rischiosissimo più 1,5°C indicato 10 anni fa alla COP15 di Parigi come «limite insuperabile». Nonostante i report Onu che rilevano come del tutto inefficaci le attuali roadmap verso la riduzione di emissioni di gas a effetto serra definite dai 195 Stati del Globo poiché ne ridurrebbero appena il 12% entro il 2035 sul livello 2019, mentre per frenare il riscaldamento globale a 1,5 °C al 2100 servirebbe ridurre almeno del 60% le emissioni di carbonio. Nonostante l’escalation di vittime e danni per l’inazione sul clima nel corso di eventi climatici sempre più frequenti e distruttivi, e la mortalità per ondate di calore e alluvioni e altri eventi estremi cresciuta del 33% - da 51 a 68 decessi ogni 100.000 abitanti, e soprattutto tra gli anziani - come rilevano allarmanti analisi come nell’ultimo “Pan european commission on climate and health”, redatto anche dall’unico italiano del team scientifico, l’ex ministro Enrico Giovannini. Nonostante le moltiplicazioni degli appelli del mondo scientifico ai partecipanti della COP30 per indicare la svolta che servirebbe. Nonostante queste verità scomode e nascoste troppo a lungo, anche in questo trentesimo vertice mondiale nell’Amazzonia brasiliana il clima generale è di sconsolante rassegnazione al peggio, con la presa d’atto dell’autolesionismo planetario per l’indifferenza di fronte al peggior rischio per il Pianeta e per noi viventi.

Mai come oggi, la riduzione dei gas serra non riesce a diventare una priorità su scala globale, e ogni azione definita nelle road maps da almeno un trentennio è surclassata da altre urgenze e oggi soprattutto dalla grande corsa al riarmo e dalla spinta alla superproduzione militare, cosicché l’unica guerra utile e urgente, quella ai gas serra, può attendere.

Il mondo va al contrario, e tutto si è maledettamente complicato con gli Usa di Trump sfilati per la seconda volta da ogni impegno negoziale. Il tycoon rimesso piede alla Casa Bianca ha smantellato ogni azione e reazione al big problem climatico. Ha cancellato l’Agenzia per la Protezione Ambientale, ha eliminato sussidi per le energie rinnovabili e sostegni a produzione e vendita di veicoli elettrici, il 22 agosto 2025 ha ordinato lo stop federale ai parchi eolici mettendo in crisi l’industria eolica Usa offshore con impianti che considera ’«orribili», affossando anche il mega-progetto di parco eolico offshore “Revolution Wind” da 704 MW nonostante sia stato già completato all’80% dall’azienda danese Ørsted, a 15 miglia nautiche da Rhode Island, a 32 dal Connecticut e a 12 da Martha's Vineyard, bloccando i lavori in mare del sistema da 65 turbine delle quali 45 già installate e pronte ad alimentare oltre 350.000 abitazioni dal 2026. Trump da sempre spinge al massimo l’amato drill, baby, drill con perforazioni senza limiti dei produttori di gas di scisto, petrolio e carbone e oggi, dopo aver revocato ogni normativa ambientale di settore, spinge le grandi Big Oil e le compagnie energetiche e petrolifere a resettare ogni investimento in fonti energetiche rinnovabili e in strategie a basse emissioni di carbonio.

Con la parola d’ordine della Casa Bianca in modalità trumpiana del ritorno ai fossili, e altri Paesi che seguono a ruota con disimpegni, anche questa Conferenza delle Parti oggettivamente perde peso. Tra i simboli della retromarcia globale c’è il sorprendente Bill Gates nuova versione. Il brillante imprenditore fondatore della Microsoft Corporation un tempo tra i promoter più convinti della battaglia climatica, il personaggio che irruppe dieci anni fa alla COP di Parigi con l’annuncio  dell’impegno dei Fondi internazionali nella finanza green, oggi abbassa i toni e innesta una prima diplomatica retromarcia spiegando l’errore di «…una visione apocalittica del cambiamento climatico che recita più o meno così: tra pochi decenni, un cambiamento climatico catastrofico decimerà la civiltà. Le prove sono ovunque: basta guardare le ondate di calore e le tempeste causate dall’aumento delle temperature globali. Nulla è più importante che limitare l’aumento della temperatura. Fortunatamente per tutti noi, questa visione è sbagliata. Sebbene il cambiamento climatico avrà gravi conseguenze, in particolare per le popolazioni dei paesi più poveri, non porterà alla fine dell’umanità».

Ma un cambio di strategia che avrà un peso è oggi in corso anche nell’Unione europea sulla spinta soprattutto delle confindustrie continentali e di Stati membri che tornano all’attacco della “«ollia del Green Deal» che oggi trovano sponde insperate. Se da un lato l’Unione conferma l’abbandono graduale dei combustibili fossili nei sistemi energetici, e l’obiettivo della riduzione delle emissioni del 90% entro il 2040, il nuovo percorso di abbattimento di emissioni serra e la transizione energetica nei 27 Paesi è accompagnata da frasi che rinviano tutto al futuro, del tipo: «…in modo giusto, graduale, ordinato ed equo, senza danneggiare le economie». La maggior flessibilità per gli Stati membri è già stata siglata con il compromesso raggiunto tra i ministri dell’Ambiente dell’Ue a inizio novembre, anche con un nuovo dispositivo per ridurre le emissioni interne dell’85% rispetto ai livelli del 1990. Dal 2036, infatti, i Paesi membri potranno anche esternalizzare punti percentuali di riduzione all’estero attraverso l’acquisto di compensazioni di carbonio internazionali. È il via libera alla commercializzazione delle emissioni di CO2 con compra-vendite che consentiranno ai Paesi con emissioni in eccesso di acquistare certificati di minori emissioni di quote di carbonio da Paesi che ne emettono meno. È l’apertura agli europei della Borsa di scambio di CO2 Emission Trading System, più o meno una licenza ad emettere gas serra che fa sfumare gli impegni presi due anni fa nella COP di Dubai per la «transitioning away from fossil fuels».

La verità amara, però, è la scarsa credibilità acquisita ormai da vertici Onu depotenziati e non in grado oggi di mobilitare risorse e indicare una rotta per la grande sfida climatica. Pesa anche l’assenza di negoziatori-pesi massimi riconosciuti come erano l’inviato Usa John Kerry o il cinese Xie Zhenhua che produssero accordi avanzati. Pesa lo scarso impegno negoziale dei Paesi grandi emettitori - Usa, Cina, Russia, Europa, India e Giappone -, e la scarsa credibilità dei dispositivi per l’«uscita graduale» dalla carbonizzazione spinta, tecnologie per la carbon capture and storage, azioni per «triplicare la potenza rinnovabile e raddoppiare l’efficienza energetica». Tutto resta nel vago. Ed emerge a Belém la presenza cinese con una folta delegazione, e la conferma arrivata dal vicepresidente cinese Ding Xuexiang che «la Cina è un paese che mantiene le promesse». L’enigma cinese è però nell’essere contemporaneamente il più grande continente-inquinatore di gas serra a carbone, il primo emettitore con circa il 31% di CO2 a livello globale, ma anche il più grande investitore ed esportatore di nuove tecnologie green, dalle rinnovabili all’automotive. Tra le contraddizioni in seno al popolo comunista, c’è l’avere un piano quinquennale 2025-2030 le cui linee guida sono state approvate dal plenum del Comitato centrale del PCC e sono centrate su innovazione tecnologica e sviluppo delle rinnovabili. Da sola produce oggi il 48,4% di gigawatt di potenza dal fotovoltaico, il 44,2 dell’eolico, e la sua competitività tecnologica sui mercati a partire da quello automobilistico è e sarà sempre più evidente. Al secondo posto seguono gli Stati Uniti, con una quota del 13,5% di produzione totale di anidride carbonica. L'India è al terzo posto con il 7,3% di emissioni globali. Se la Cina punta alla neutralità delle emissioni di carbonio entro il 2060, gli Stati Uniti si erano impegnati al 2050, mentre l'India prevede di raggiungere le zero emissioni entro il 2070.

Ma le contraddizioni le mostra lo stesso Lula. Da un lato si scaglia contro i negazionisti del clima ma dall’altro ha appena concesso alla compagnia energetica Petrobras di trivellare alla foce del Rio delle Amazzoni. Da un lato c’è la roadmap brasileira per l’eliminazione graduale dei combustibili fossili, dall’altro anche Marina Silva, ministra dell’Ambiente del governo Lula ed ecologista difensore dell’ecosistema Amazzonia, che sul quotidiano O Globo spiega che «non è possibile abbandonare i combustibili fossili per decreto perché ciò provocherebbe un collasso energetico globale». 

Il nuovo clima globale è questo.

Erasmo D'Angelis

Erasmo D’Angelis, giornalista - Rai Radio3, inviato de il Manifesto e direttore de l’Unità -, divulgatore ambientale e autore di libri, guide e reportage, tra i maggiori esperti di acque, infrastrutture idriche, protezione civile. Già Segretario Generale Autorità di bacino Italia Centrale, coordinatore per i governi Renzi e Gentiloni della Struttura di Missione “italiasicura” contro il dissesto idrogeologico, Sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti del governo Letta, Presidente di Publiacqua e per due legislature consigliere regionale in Toscana. È Presidente della Fondazione Earth Water Agenda, tra i promotori di Earth Technology Expo e della candidatura dell’Italia al World Water Forum.