La crisi del mercato della plastica riciclata dimostra che è necessario introdurre robusti strumenti economici e di politica industriale almeno nelle filiere critiche
L'attuale grave crisi del mercato della plastica riciclata non è solo un episodio contingente e settoriale. Ci parla (anzi parla ai policy makers) di come la tanto celebrata "economia circolare" non sia per niente un meraviglioso automatismo del mercato, ma una strategia complessa e dinamica, che comporta un monitoraggio costante e attento delle dinamiche dei mercati.
Ma partiamo dalla crisi attuale del riciclo della plastica.
I motivi sono chiari e banali: il prezzo dei polimeri riciclati è superiore a quello dei granuli vergini, i paesi extra Eu esportano senza troppi controlli materiali a basso prezzo e di bassa qualità, il costo dell’energia per i produttori plastici è aumentato, il quadro burocratico molto pesante. L'incremento della raccolta Interna di rifiuti plastici non viene quindi assorbita dagli impianti di riciclo, anche perché sono prossimi ai limiti autorizzati di stoccaggio, perché questi non trovano sbocco nell’industria del riciclo. Una crisi che riguarda sia la filiera dei flussi omogenei e maturi, sia i flussi “hard to recycle” come il plasmix, questi ultimi (la metà dei rifiuti plastici avviati a riciclo) in particolar modo perché non beneficiano degli obiettivi minimi di contenuto di prodotto riciclato nei prodotti. Insomma se la crisi non si risolve l’unica soluzione è l’interruzione della raccolta differenziata della plastica, cosa che sarebbe difficilmente comprensibile ai consumatori e ai cittadini.
È il mercato bellezza. Gli operatori si muovono seguendo la sua logica. Il problema è che nei rifiuti urbani il servizio di raccolta non è interrompibile (è un servizio pubblico) e esistono obiettivi di raccolta e riciclo che non si possono derogare. Qui sta il primo problema dell'economia circolare.
Oggi produrre in Europa Pet clear per imballaggi alimentari se prodotto in Italia costa se vergine 7/800 euro a tonnellata, a fronte di un prodotto equivalente riciclato che costa 1400/1500.
Se la "policy" poi vuole promuovere il riciclo per non consumare risorse naturali vergini (policy condivisibile), poi non può disinteressarsi di prezzi, domanda e offerta. Il mercato del riciclo a volte funziona in modo spontaneo, a volte no, come ora nella plastica. Da qui la necessità di disporre di strumenti economici che orientino gli operatori verso il target desiderato dalla policy. Non necessariamente sussidi o aiuti a pioggia, ci sono strumenti economici e giuridici che possono essere utilizzati, non sostituendo il mercato, ma orientandoli.
È quello che hanno chiesto gli operatori della filiera del riciclo plastico al Mase per adesso senza grande successo. In sintesi le proposte di Assorimap, Utilitalia e Assoambiente sono chiare: certificati del riciclo, certificati bianchi per i riciclatori, anticipazione degli obblighi di utilizzo minimo, contrasto alla concorrenza sleale di Paesi extra Eu e promozione del mercato interno europeo, miglioramento dei Cam negli appalti pubblici.
Che economia circolare non fosse quella parola magica capace di spostare automaticamente il mercato verso gli obiettivi desiderati si era capito da tempo.
Il mercato dei materiali (vergini o riciclati) è, come tutti i mercati, complessi, globale, instabile. Gli operatori del riciclo (raccoglitori, centri di selezione) sono stritolati da un lato da obblighi di raccolta e obiettivi di riciclo, dall’altro dalla difficoltà di conferire in materiali su un mercato che naturalmente reagisce alle dinamiche domanda offerta.
Se vogliamo raddoppiare il tasso di circolarità e raggiungere gli obiettivi di riciclo indicati dall’Unione europea, occorre (a partire dal Circular Economy Act) introdurre robusti strumenti economici e di politica industriale, almeno nelle filiere critiche, non solo nella plastica: difficoltà di funzionamento dei mercati le vediamo nei Raee, e le vedremo nei tessili.