
Ecco come cambierà la gestione dei rifiuti tessili con la responsabilità estesa del produttore (Epr)

Nel quadro del Green Deal europeo e del pacchetto sull’economia circolare, il settore tessile è stato individuato come uno dei più problematici per l’impatto ambientale lungo l’intero ciclo di vita del prodotto. Con il recepimento della Direttiva UE 2018/851, l’Italia si prepara a adottare un sistema di responsabilità estesa del produttore (EPR) anche per i rifiuti tessili, come già avviene da tempo per altre tipologie di rifiuti. Ma la costruzione di un sistema efficace richiede scelte chiare e coordinate su governance, incentivi economici e infrastrutture industriali. Oggi la filiera è frammentata, inefficiente ed eccessivamente sbilanciata verso il riutilizzo. Serve un salto di qualità.
La normativa in arrivo e il ruolo del CORIT
Il Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica (MASE) lo scorso 2 aprile ha pubblicato uno schema di decreto, aprendo una consultazione pubblica. L’ambizione del nuovo modello di governance è intercettare e gestire tutte le frazioni di rifiuti tessili che, fatta eccezione per la frazione destinata al riutilizzo, è stata finora destinata sostanzialmente alle discariche oppure a incenerimento. In ogni caso modalità di raccolte selettive dovrebbero essere implementate sia dai Comuni sia dai produttori (tramite le varie forme consortili, ovvero le Producer Responsibility Organization - PRO), proprio al fine di migliorare fin dove possibile la qualità delle raccolte, evitando che i flussi in aumento si trasformino in perdita di qualità e aumenti di costi di gestione. Potrebbero così rientrare nei circuiti della raccolta, quindi, un potenziale di frazioni tessili quantificabile tra 600mila tonnellate (stime Ispra) e 1,5 milioni di tonnellate (stime sulla base di analisi merceologiche). In sostanza, il testo si propone di promuove la sostenibilità della filiera dei prodotti tessili, la progettazione degli stessi e dei loro componenti volta a ridurre gli impatti ambientali e la generazione di rifiuti durante la produzione e il successivo utilizzo, finalizzata ad assicurare che la raccolta, il riciclo, il recupero e lo smaltimento dei prodotti diventati rifiuti avvengano secondo i principi e l’ordine di priorità definiti dal TUA.
Come in ogni schema EPR, ai produttori sarà fatto obbligo di versare “un contributo economico, denominato contributo ambientale, che dovrà garantire la sostenibilità economica delle operazioni di preparazione per il riutilizzo, riciclo, recupero energetico e smaltimento. È comunque indispensabile che l’ecocontributo venga definito per ciascun prodotto in modo omogeneo a livello UE al fine di evitare disparità e pratiche anticoncorrenziali.
La proposta normativa italiana prevede anche l’istituzione di un organo centrale di coordinamento, il CORIT (Consorzio obbligatorio per il riciclo dei tessili), che dovrebbe agire come soggetto centrale nella gestione del sistema EPR tessile.
I nodi da sciogliere: governance, ruoli e responsabilità
Uno dei principali problemi del sistema proposto è la mancanza di una governance chiara e univoca. Il testo normativo demanda molte decisioni cruciali ad accordi di programma tra CORIT, ANCI, operatori locali e gestori della raccolta. Questo modello può generare disparità territoriali, creando un mosaico frammentato di pratiche, procedure e standard. In assenza di regole nazionali vincolanti, i Comuni potrebbero interpretare in modi diversi i propri compiti, con conseguente disomogeneità del servizio e difficoltà nella tracciabilità. Non appare chiara, soprattutto, la ripartizione dei ruoli e delle rispettive responsabilità degli attori coinvolti nella filiera, ovvero come praticamente si dovrà integrare il ruolo dei gestori del servizio di igiene urbana con quello dei produttori e dei distributori e, in particolare, come questi ultimi debbano fare le raccolte, cioè solo con le campane stradali (o raccolte domiciliari?) oppure circoscritte ai punti vendita.
Uno dei nodi che rimane da sciogliere, quindi, è lavorare per l’immissione nel mercato di prodotti sempre meglio progettati, capaci di lunga vita e di consentire, una volta giunti a fine vita, un facile e conveniente riciclo. Servirebbe, inoltre, migliorare ulteriormente la selezione finalizzata al riutilizzo tarandola sulla mole sempre ampia di rifiuti raccolti, i cui quantitativi sono destinati a crescere anche a seguito del fast fashion, che comporta un costante peggioramento della qualità. Se, da una parte, è necessario non frammentare eccessivamente la raccolta, per raggiungere flussi costanti e capaci di alimentare processi su scala industriale, dall’altra, è altrettanto necessario consentire ai produttori/distributori di intervenire nella raccolta selezionata sia per il segmento del riutilizzo sia per quello del riciclo. Un’altra questione aperta riguarda la titolarità dei rifiuti tessili, aspetto tutt’altro che secondario.
Anche la copertura dei costi rimane un nodo irrisolto. I costi di raccolta e smaltimento dovrebbero essere interamente a carico dei produttori, attraverso il contributo ambientale. Ma nella bozza di decreto non è chiaro se tale contributo coprirà anche le attività a valle (selezione, riciclo, smaltimento), né come verrà determinato. Il rischio concreto è che parte dei costi continui a gravare sulla TARI, quindi sui cittadini, tradendo il principio “chi inquina paga” alla base dell’EPR. E’ evidente che il contributo ambientale più alto dovrà essere sostenuto necessariamente dalle filiere del fast e ultra fast fashion.
Infine, manca una definizione uniforme delle modalità di raccolta: sarà stradale, domiciliare, tramite i punti vendita? L’assenza di indicazioni vincolanti rischia di lasciare troppo spazio all’improvvisazione, ostacolando la qualità e la quantità dei flussi raccolti.
Le possibili traiettorie di policy
Il nuovo modello di gestione dei rifiuti tessili si dovrebbe strutturare distinguendo i due momenti cruciali, ovvero la raccolta e la selezione. Se la prima rientrerebbe, naturalmente, nell’alveo della privativa, allo stesso tempo sarebbero auspicabili anche forme di intervento privato esclusivamente mirate a garantire l’avvio nella catena del valore dei prodotti ritirati. Si tratterebbe, quindi, di una forma inedita di privativa corretta, integrata dal contributo effettivo dei produttori anche nella fase della raccolta. In questa prima fase, quindi, l’interesse pubblico dovrebbe essere necessariamente garantito, e in certo senso prevalere (alla luce dei principi fondamentali del TUA), sebbene contemperato dall’apporto di soggetti dotati di professionalità allo scopo di apportare maggiore efficienza, a cominciare dalla tracciabilità e dalla chiusura del ciclo per una piena valorizzazione delle singole frazioni. Si tratterebbe, dunque, di una sorta di puntello privato a una intelaiatura sostanzialmente pubblica, che ha il suo scopo primario nella migliore raccolta possibile dei rifiuti, con la minore impronta ambientale, con l’intento principale di costruire una catena del valore davvero sostenibile.
La seconda fase, invece, quella della selezione, dovrebbe garantire soprattutto la professionalità degli operatori, dove la libertà di accesso in un regime di piena concorrenza dovrebbe essere tutelata. Volendo schematizzare, nel modello EPR ipotizzato dagli operatori della selezione, per esempio, la stazione appaltante, quindi l’ente pubblico di riferimento o l’affidatario del servizio di raccolta dei rifiuti urbani, dovrebbe prima di tutto mettere a gara il servizio di raccolta, a quel punto il raccoglitore dovrebbe vendere ai selezionatori in regime di concorrenza. Dal punto di vista dell’equilibro di mercato, una eventuale differenza in negativo tra i costi sostenuti e i ricavi dalla vendita dovrebbe essere coperta dal consorzio di riferimento tramite le risorse raccolte dal contributo ambientale. In questo caso il fulcro è dato dalla sinergia raccoglitori-selezionatori, con i Comuni e/o gli affidatari del servizio di raccolta in ruolo sussidiario e i consorzi dei produttori solo nel ruolo di camera di compensazione per far quadrare i conti economici.
Un modello alternativo, sostenuto da alcuni consorzi, vede invece i produttori al centro della filiera, responsabili sia della raccolta sia della gestione. Questo approccio punta a una maggiore efficienza e integrazione verticale, ma presenta rischi di sovrapposizione con il sistema pubblico, oltre a una possibile inadeguatezza delle risorse disponibili attraverso il contributo ambientale.
Entrambi i modelli hanno punti di forza e di debolezza, ma convergono su un punto essenziale: servono regole certe, un sistema di tracciabilità affidabile e una chiara definizione delle responsabilità economiche e operative.
Riutilizzo, preparazione al riuso e riciclo: lo stato dell’arte
Ad oggi, il sistema italiano dei rifiuti tessili è fortemente sbilanciato verso il riutilizzo, con poco più dell’1% dei volumi raccolti presso le utenze domestiche effettivamente avviati a riciclo (ISPRA, 2024). Gli impianti attualmente operativi sono specializzati nella selezione per la rivendita dell’usato, spesso gestita da Onlus o operatori privati che operano in contesti socio-assistenziali.
In particolare, la Campania rappresenta l’unico vero hub nazionale per la preparazione al riutilizzo, con circa 40 impianti e 70.000 tonnellate/anno trattate, in parte provenienti da Svizzera e Germania. Questo sistema, basato su una solida rete commerciale internazionale, consente di valorizzare l’usato attraverso canali di rivendita globali. Tuttavia, per le frazioni non riutilizzabili, il riciclo è affidato a operatori esteri, spesso situati nei Balcani o in Asia, dove le normative ambientali sono meno stringenti.
Il riciclo di materia, invece, è poco sviluppato. Solo il distretto di Prato rappresenta un esempio virtuoso, anche se ristretto al caso della rigenerazione della lana cardata. La complessità dei materiali (miste fibre naturali e sintetiche, coloranti, additivi) rende difficile la separazione e il trattamento. Le tecnologie
disponibili - upcycling meccanico, riciclo termomeccanico o chimico - richiedono investimenti consistenti e processi industriali avanzati, ancora poco diffusi in Italia.
Senza un mercato solido per le fibre riciclate, il sistema rischia di impantanarsi. Le pratiche di fast fashion e l’eccesso di produzione rendono spesso antieconomico il riciclo, spingendo verso il recupero energetico o lo smaltimento.
Cosa serve per far funzionare il sistema
Per rendere il sistema EPR tessile efficace, servono alcune condizioni imprescindibili. Anzitutto, è necessario fissare obiettivi minimi di raccolta, riutilizzo e riciclo. Senza target vincolanti, il rischio è che i soggetti coinvolti puntino sulle opzioni meno costose - come lo smaltimento - invece che sull’effettiva chiusura del ciclo.
In secondo luogo, va implementato un sistema di tracciabilità robusto, che eviti pratiche opache o dumping internazionale mascherato da riutilizzo. La creazione di un Albo nazionale dei selezionatori e rivenditori, con controlli da parte del MASE o del MIMIT, potrebbe migliorare la trasparenza e la qualità del flusso.
Dal punto di vista economico, occorre sostenere il mercato delle fibre riciclate attraverso strumenti di fiscalità ambientale, Green Public Procurement e l’introduzione di Certificati di Riciclo o obblighi di contenuto minimo riciclato. Oggi, solo il 71% delle stazioni appaltanti applica i CAM tessili, secondo il Rapporto Osservatorio Appalti Verdi 2024.
Infine, è fondamentale definire i costi efficienti per la raccolta, ispirandosi al modello già applicato da ARERA per gli imballaggi. Solo così si potrà garantire un’equa distribuzione degli oneri tra produttori e sistema pubblico, evitando che i cittadini continuino a pagare attraverso la TARI per un servizio che dovrebbe essere a carico dei produttori.
Un’occasione per ripensare la produzione tessile
La riforma dei rifiuti tessili non può limitarsi alla gestione a valle. Va affrontata alla radice la questione della iperproduzione e del consumo di prodotti a basso costo e bassa durabilità, alimentati dal modello del fast fashion. In assenza di regole che limitino l’immissione sul mercato di capi non riciclabili o contenenti sostanze vietate, ogni sistema di riciclo sarà destinato al fallimento.
Il Regolamento REACH già vieta molte sostanze tossiche, ma il loro rispetto è difficile da verificare a posteriori. I CAM tessili richiedono l’assenza di sostanze pericolose, ma senza controlli capillari e obblighi di certificazione, il rischio di greenwashing è elevato.
Serve quindi un’azione coordinata a livello europeo, che metta al centro la qualità dei prodotti e ne limiti la produzione e distribuzione incontrollata. Solo così sarà possibile ridurre a monte la quantità di rifiuti e costruire una vera filiera circolare, in grado di coniugare sostenibilità ambientale, innovazione industriale e inclusione sociale.
a cura di Donato Berardi e Antonio Pergolizzi
