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L’ambiente come vittima invisibile delle guerre: le falle dell’accountability internazionale

I conflitti armati generano danni ambientali di portata sistemica che il diritto internazionale, nella sua configurazione attuale, non riesce ancora a intercettare e sanzionare efficacemente. La proposta di introdurre l’ecocidio come crimine internazionale emerge come un passo necessario
 |  Inquinamenti e disinquinamenti

Le devastazioni ambientali provocate nei conflitti armati rappresentano una delle contraddizioni più profonde del diritto internazionale contemporaneo. Mentre l’opinione pubblica è sempre più sensibilizzata rispetto alla fragilità degli ecosistemi e alla necessità di fronteggiare le crisi climatiche, la guerra continua a produrre danni ecologici vastissimi, spesso irreversibili, senza che ciò generi una risposta adeguata nelle sedi giudiziarie internazionali. L’ambiente rimane così una vittima silenziosa e quasi priva di voce, intrappolata in un limbo giuridico in cui le norme esistono ma non riescono a incidere davvero sui comportamenti degli attori armati, statali o non statali. Questa marginalizzazione è tanto più paradossale se si considera che la crisi climatica e il degrado ambientale sono riconosciuti come moltiplicatori di instabilità, fattori che possono aggravare tensioni sociali e geopolitiche, influenzando perfino l’innesco di nuovi conflitti. E tuttavia, proprio laddove la tutela dell’ambiente dovrebbe essere massima, si registra la sua vulnerabilità più estrema.

Il diritto internazionale umanitario riconosce da oltre quarant’anni l’esigenza di proteggere l’ambiente durante le ostilità. Tuttavia, tali previsioni sono frammentarie, indirette e costruite attorno a soglie applicative estremamente elevate. Le disposizioni del Protocollo I alle Convenzioni di Ginevra, che vietano gli attacchi suscettibili di causare danni “diffusi, gravi e durevoli” all’ambiente naturale, risentono di una formulazione che nella prassi si rivela quasi paralizzante: la necessità di dimostrare la contemporaneità di tutti questi requisiti, in un contesto caotico e caratterizzato da forti incertezze fattuali e prove spesso incomplete, rende la loro applicazione più teorica che reale. A ciò si aggiunge una concezione diffusa dell’ambiente ancora sostanzialmente antropocentrica: il danno all’ecosistema è spesso valutato solo nella misura in cui incide sulla popolazione civile, trasformando la tutela dell’ambiente in un elemento accessorio rispetto agli obiettivi umanitari tradizionali.

Anche il diritto internazionale penale, nonostante i progressi introdotti dallo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, ha scelto un approccio estremamente cauto e cautelativo. L’unico riferimento esplicito ai danni ambientali si limita ai conflitti armati internazionali e mantiene la stessa soglia tripartita – grave, esteso, durevole – con l’ulteriore vincolo della sproporzionalità rispetto al vantaggio militare perseguito. Questa combinazione si traduce in una norma di fatto inapplicabile, tanto che la Corte non ha mai aperto un procedimento dedicato a danni ecologici di derivazione bellica.

L’architettura del diritto penale internazionale, inoltre, resta costruita attorno al paradigma della responsabilità di tipo soggettivo e personale, mostrando tutti i suoi limiti di fronte a danni ambientali che prendono forma attraverso dinamiche complesse e diluite nel tempo. Il risultato è un vuoto di responsabilità che sfugge alle procedure tradizionali di accertamento.

Il sistema di accountability che ne emerge non riesce a restituire la profondità del danno ecologico prodotto dalla guerra. I conflitti lasciano dietro di sé territori degradati, acque contaminate, ecosistemi frammentati, habitat danneggiati: impatti che si protraggono nel tempo, ben oltre la cessazione delle ostilità. Le loro conseguenze, spesso non immediatamente visibili a chi è lontano dai territori colpiti, incidono sulla salute delle popolazioni, sull’accesso alle risorse essenziali, sugli equilibri climatici e sulla biodiversità delle aree interessate. Non si tratta più di danni collaterali, ma di veri e propri costi ambientali della guerra, che si propagano per decenni attraverso catene ecologiche complesse. In molti teatri di conflitto, gli ecosistemi non recuperano mai completamente, con conseguenze che ricadono sulle generazioni future. Eppure, sul piano giuridico, tali fenomeni vengono raramente ricondotti a responsabilità individuali o statali, contribuendo a quella sorta di rimozione collettiva che accompagna i danni ecologici bellici.

A complicare ulteriormente il quadro intervengono fattori politici, diplomatici e strutturali. La rilevazione e documentazione dei danni ambientali richiede strumenti tecnici avanzati, accesso ai siti colpiti e competenze scientifiche che spesso mancano nelle prime fasi post-conflitto, quando la priorità della comunità internazionale è la gestione della crisi umanitaria immediata. Le istituzioni internazionali, inoltre, tendono a privilegiare percorsi diplomatici e accordi di ricostruzione che demandano a meccanismi negoziati la gestione delle conseguenze ambientali, rinunciando a percorsi contenziosi che potrebbero compromettere la fragile stabilità post-bellica. L’assenza di un organo internazionale specializzato, con poteri autonomi di indagine e di valutazione tecnica, limita ulteriormente l’emersione della responsabilità. A ciò si somma la riluttanza politica degli Stati a esporsi al rischio di essere accusati di crimini ambientali, un rischio che potrebbe incidere sull’equilibrio geopolitico e sulla gestione delle alleanze militari.

In questo scenario, il dibattito sull’introduzione del reato di ecocidio emerge come una delle proposte più rilevanti per colmare il vuoto normativo. L’idea è quella di riconoscere come crimine internazionale autonomo la distruzione grave e su larga scala degli ecosistemi, svincolandola dalle logiche tradizionali del diritto dei conflitti armati e attribuendo alla comunità internazionale un mezzo più efficace per perseguire condotte ecologicamente devastanti, sia in tempo di pace sia in tempo di guerra.

In questo scenario, il dibattito sull’introduzione del reato di ecocidio assume un rilievo centrale come possibile risposta alla frammentazione della tutela ambientale nel diritto internazionale. La proposta di riconoscere l’ecocidio come crimine internazionale autonomo non deriva soltanto dall’esigenza di colmare un vuoto normativo, ma anche dalla consapevolezza che le categorie penali nazionali, pur rafforzate negli ultimi anni, non sono in grado di intercettare condotte che per natura, scala ed eco travalicano i confini degli Stati. L’impatto ecologico dei conflitti armati e delle attività umane più distruttive non può essere ricondotto alle logiche tradizionali della responsabilità penale interna, legate a ordinamenti che operano su basi territoriali, con strumenti diversi e spesso con livelli di tutela disomogenei.

L’ecocidio, in questa prospettiva, dovrebbe configurarsi come una figura autonoma, dotata di un perimetro concettuale proprio e non derivato dalle legislazioni nazionali, capace di riflettere la natura transnazionale e sistemica dei danni ambientali più gravi. Solo una incriminazione internazionale, strutturata al di fuori delle categorie domestiche e indipendente da esse, può assicurare uniformità applicativa, certezza del diritto e, soprattutto, la possibilità di perseguire condotte che incidono sul patrimonio ecologico globale. È vero che la definizione proposta presenta ancora alcune questioni interpretative aperte – dall’individuazione della soglia di gravità alla qualificazione dell’elemento soggettivo – ma tali aspetti rappresentano fasi fisiologiche di elaborazione di una fattispecie nuova, destinata a inserirsi in un contesto giuridico in rapida trasformazione.

L’obiettivo non è quello di duplicare o sostituire gli strumenti penali statali interni, bensì di creare un livello superiore di tutela, coerente con la dimensione planetaria del bene protetto. L’introduzione dell’ecocidio nello Statuto di Roma costituirebbe così non solo un avanzamento tecnico, ma anche un riconoscimento politico e simbolico: l’affermazione che la protezione degli ecosistemi rappresenta un interesse della comunità internazionale nel suo insieme e che la loro distruzione non può essere lasciata alla discrezionalità degli ordinamenti nazionali.

Le riforme possibili, tuttavia, non si esauriscono nella definizione di un nuovo crimine internazionale. Parallelamente, si rende necessario intervenire sul quadro normativo già esistente, interpretando in chiave evolutiva il diritto internazionale umanitario e integrandolo in maniera più coerente con i principi del diritto internazionale dell’ambiente. Ciò implica un rafforzamento degli obblighi di valutazione preventiva degli impatti ambientali delle operazioni militari, la definizione di criteri comuni per la condotta delle ostilità, lo sviluppo di meccanismi di monitoraggio indipendente più strutturati e un maggiore ricorso alle evidenze scientifiche per l’accertamento dei fatti. Una simile impostazione consentirebbe di colmare alcune delle lacune operative che oggi impediscono di attribuire responsabilità in modo efficace.

Al tempo stesso, la responsabilità internazionale degli Stati rappresenta uno strumento ancora ampiamente sottoutilizzato. Anche in assenza di procedimenti penali, il diritto internazionale offre basi solide per esigere misure di riparazione ambientale, interventi di bonifica e impegni a prevenire il ripetersi delle condotte dannose. In molti contesti, la ricostruzione ecologica dovrebbe essere considerata parte integrante dei processi di pace, poiché il ripristino degli ecosistemi è condizione imprescindibile per la stabilità delle comunità coinvolte e per evitare il riemergere di dinamiche di vulnerabilità che possono alimentare ulteriori crisi.

Gli attuali conflitti non possono essere interpretati come un fenomeno circoscritto al confronto militare. Gli effetti effetti incidono in modo diretto sulla resilienza degli ecosistemi e sulla capacità delle popolazioni di vivere in condizioni di sicurezza. Riconoscere l’ambiente come bene giuridico autonomo, dotato di un valore proprio e non semplicemente funzionale ad altri interessi, costituisce un passaggio necessario per ridefinire l’architettura della responsabilità internazionale. È in questa prospettiva che la proposta di introdurre un crimine di ecocidio – inteso come figura autonoma, collocata a livello internazionale e svincolata dalle logiche penalistiche nazionali – assume piena coerenza sistemica. Essa si inscrive in un percorso più ampio, che vede emergere l’esigenza di dotare la comunità internazionale di strumenti capaci di fronteggiare danni ambientali di scala e intensità tali da influenzare stabilità, sicurezza e diritti fondamentali.

La situazione in Palestina rappresenta un esempio emblematico della natura sistemica che i danni ambientali possono assumere nei conflitti armati: la distruzione delle infrastrutture civili, l’accumulo di ingenti quantità di macerie contaminate, l’inquinamento delle risorse idriche e il deterioramento generalizzato del territorio mostrano come l’impatto ecologico della guerra possa protrarsi ben oltre la dimensione immediata delle ostilità. Questi elementi confermano l’urgenza di disporre, a livello internazionale, di strumenti capaci di qualificare tali condotte come violazioni autonome, non assorbite dalle categorie penalistiche nazionali e non subordinate al paradigma tradizionale del danno collaterale.

Alla luce di ciò, il percorso verso un sistema realmente efficace di prevenzione e repressione dei danni ambientali da conflitto richiede un rafforzamento del diritto internazionale esistente e l’elaborazione di nuove categorie normative. L’attenzione crescente della comunità internazionale, l’evoluzione del diritto penale internazionale e il dibattito sull’introduzione di un crimine di ecocidio convergono nel delineare un quadro in cui la tutela dell’ambiente nei conflitti armati non può più essere considerata marginale, ma costituisce un elemento essenziale di qualsiasi progetto di pace duratura e di un modello sostenibile di convivenza tra comunità umane ed ecosistemi.

Simone Spinelli

Simone Spinelli, nato a Taranto, si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Perugia approfondendo le tematiche di diritto penale ambientale con una tesi di laurea sul processo allo stabilimento exILVA di Taranto. Dal 2020 collabora quale consulente legale con un primario Studio legale in Roma dove ha approfondito il mondo della compliance aziendale con un particolare focus su tematiche ambientali, Modelli di organizzazione, gestione e controllo ex D.Lgs. n. 231/01, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e privacy.