
L’Infinito di Leopardi e quel paesaggio che non esiste più

In un primo momento le Operette Morali del poeta Giacomo Leopardi (1798-1837) vennero messe all’indice, ovvero solo alcune di esse furono pubbliche, cioè quelle meno sovversive. Alcuni dei sostenitori e stimatori di Leopardi, come Pietro Giordani, furono politicamente perseguitati e altri vennero persino arrestati, quando gran parte del Nord Italia era sotto il dominio dell’Impero austro-ungarico. Comunque Leopardi lo ricordiamo soprattutto per i suoi Canti, tra cui uno dei più belli è certamente L’infinito.
È di questa poesia che vogliamo parlare, non per farne un commento filologico, letterario o linguistico - tra l’altro non ne sarei capace - ma per parlare di un suo aspetto, cioè di quel paesaggio che il poeta dal Colle dell’Infinito a Recanati non poteva vedere ma che si immaginava. La poesia all’inizio recita: Sempre caro mi fu quest’ermo colle e questa siepe che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Dunque, il poeta dal colle non poteva scorgere l’orizzonte e gli interminati spazi di là da quella cioè da quella siepe. La vista gli era preclusa.
Ora, se si visita il Colle dell’Infinito non è più precluso niente. Quella siepe è stata praticamente rasa al suolo. Esistono qua e là dei pini e dei lecci che, tra l’altro, sono stati piantati molti anni dopo la morte di Leopardi e quel paesaggio che il poeta immaginava ora è molto diverso, anzi completamente diverso. Dal colle ora si possono scorgere i Monti Sibillini e tutta la valle attraversata per 95 Km dal fiume Potenza, che i latini chiamavano Flosis, e che fino a un paio di secoli fa, sebbene fosse relativamente poco profondo e stretto, si poteva navigare, almeno a valle, e attraversare con piccole imbarcazioni. Una leggenda racconta che un santo del VII secolo, San Giuliano Ospitaliere, patrono della città di Macerata, faceva il traghettatore di pellegrini e di viandanti da una sponda all’altra di questo fiume, per espiare la sua colpa di avere ucciso erroneamente i suoi genitori sotto le coperte, pensando che fossero sua moglie insieme al suo amante. Un tempo non c’erano tutti i ponti che ci sono adesso, una ventina, forse di più, dalla foce praticamente fino alla sorgente sul Monte Pennino, a 1570 m sul livello del mare. Ancora nel 2022 ne sono stati inaugurati altri due.
Da qualche decennio dalla valle del Potenza luccicano al sole i tetti di lamiera dei capannoni della zona industriale, molti dei quali, tra l’altro, a causa della delocalizzazione industriale, sono rimasti vuoti con gli operai anch’essi delocalizzati o senza lavoro o eternamente in cassa integrazione. Tra l’altro, un tempo non era nemmeno possibile da valle scorgere la città di Recanati situata in collina a 296 m sul livello del mare. Lo sguardo era precluso dal fatto che nella valle c’erano molte querce, alberi secolari e siepi altissime che ora non esistono più. Certo, Leopardi non poteva immaginare un futuro di questo genere.
In Italia, ma non solo, situazioni come queste sono molto comuni. Ora c’è da chiedersi che cosa abbiamo fatto per meritarcele? Per avere il consenso elettorale, i politici promettevano l’installazione di nuovi impianti industriali dappertutto, e quindi posti di lavoro, senza riflettere se poi avrebbero potuto resistere nel tempo. Perché non si è pensato a un’alternativa, a uno sviluppo industriale sostenibile, a una economia circolare che potesse integrarsi bene con l’ambiente?
Per non parlare delle nostre campagne, inclusa quella della valle del Potenza: perché non si è pensato che le colture, soprattutto se su piccola scala, potessero essere programmate dagli stessi contadini e non dalle multinazionali dell’agroalimentare (la Del Monte Foods Inc. per fare un esempio, è una delle più grandi al mondo) e a quelle delle sementi che ora sono quasi tutte geneticamente modificate? Si è pensato alla monocoltura, quando nel nostro Paese non esistono le grandi e sterminate valli del Nord America. È stato come se un piccolo industriale, un artigiano, avesse voluto diventare all’improvviso un gigante dell’industria. Chi ci ha provato sappiamo poi come è andato a finire. Infatti, è stato poi tutto ridimensionato.
Inoltre i sovrumani silenzi immaginati da Leopardi non esistono più, né a monte né a valle, soprattutto non sono più sovrumani, sono stati sostituiti da rumori assordanti. Il Colle dell’Infinito, per chi non ci fosse mai stato, è attraversato da una strada statale che collega l’interno del maceratese con la costa e si può dunque immaginare quale sia il traffico con tutti i suoi rumori. Negli anni ’70 queste strade, per alcuni centauri recanatesi, uno dei quali, Franco Uncini, tra l’altro, diventerà campione del mondo nel 1982, si erano trasformate in velodromi per esercitarsi e testare le moto. Ora su queste strade sono stati installati dei dossi, ma senza grandi risultati per la sicurezza di tutti. Se si percorre tutta la circonvallazione della città, poco più di quattro chilometri, una volta fiancheggiata da un migliaio di tigli meravigliosi che ora non esistono più; in compenso ci sono diverse targhe in marmo che commemorano la morte di qualche motociclista. In tutto questo, ciò che è più straordinario è il fatto che fino a una settantina di anni fa le cose non erano così.
Il paesaggio recanatese non era poi tanto diverso da quello leopardiano, da quello della gioventù del poeta. C’è stata una ridefinizione ambientale e sociale spaventose e sembra che nessuno se ne sia accorto oppure, molto probabilmente, che sia rimasto indifferente a tutto questo. La globalizzazione degli ultimi decenni sta obliterando la nostra mente, sta modificando velocemente la nostra cultura e soprattutto quell’equilibrio che abbiamo sempre avuto con la natura e con il paesaggio. Quindi, ciò che ancora è rimasto di buono dobbiamo difenderlo con le unghie e con i denti.
Dobbiamo rimboccarci le maniche e valutare attentamente quello che era un tempo il nostro ambiente e metterlo a confronto con il presente. Senza questo confronto non capiremmo gli stravolgimenti che lo hanno modificato. Dobbiamo mantenere nella nostra memoria i luoghi della nostra infanzia, ricordarli così come erano e cercare di mantenerli tali. Purtroppo questi processi mentali e reiterativi vengono sempre meno, sovrastati dal consumismo, dall’usa e getta e da tanti altri aspetti della nostra vita moderna che alimentano l’oblio, incluso quello del paesaggio.
Dobbiamo smetterla di fare i turisti ma diventare dei viaggiatori, non solo per conoscere i luoghi ma anche le persone che li abitano, vivere con loro e, come sosteneva lo scrittore inglese Bruce Chatwin (1940-1989), dobbiamo farlo per conoscere meglio noi stessi. L’uomo che diventa sedentario – in realtà il turista è un sedentario – nella sua frustrazione diventa violento non solo con gli altri, ma verso la natura e il paesaggio. Lontani da quella che noi chiamiamo civiltà occidentale piena di guerre e ammazzamenti possiamo ritrovare la nostra vera umanità e insieme ad essa la gioia di vivere. Se viene meno quella forza istintiva irrazionale ma liberatoria, quella forza di libertà che abbiano naturalmente ereditato dai nostri antenati ma che stiamo velocemente perdendo, secondo Chatwin, aumentano l’infelicità, l’apatia, l’indifferenza e soprattutto l’inquietudine interiore.
Non dobbiamo pensare solo alle libertà fittizie e ai loro surrogati della vita moderna, agli stadi di pallone che non sono più quelli di una volta, alle droghe il cui uso sta aumentando vertiginosamente, ad assistere ai concerti dei rockettari di turno, al consumismo mediatico e ai social, ma ritrovarci in un luogo in cui non ci sia più nulla di stabilito dalla modernità, un luogo in cui sia possibile veramente contemplare il silenzio insieme a un paesaggio leopardianamente originario.
