
Per difenderci dalle alluvioni dobbiamo ripristinare lo spazio minimo vitale dei fiumi

Recentemente si è tornato a parlare della rimozione delle barriere fluviali in Europa, azione richiesta dall’Agenda 2030 che, come già segnalato su queste pagine, invita al ripristino della connettività longitudinale in molti fiumi europei, oltre a suggerire molte altre iniziative coerenti con la transizione ecologica.
Ma la vera notizia riportata non sta tanto nel trend che ogni anno puntualmente evidenzia lo sforzo sostenuto dai già numerosi paesi europei per gli adempimenti richiesti in campo ambientale, quanto nel fatto che, finalmente, anche l’Italia sembra aver iniziato ad applicare le raccomandazioni dettate dall’Agenda.
Si tratterebbe di una svolta importante per i fiumi del nostro Paese. Prima del 2024, infatti, nel Dam Removal Progress si riportavano per l’Italia solo manifestazioni di interesse per i progetti di rimozione, ma nessun risultato pratico, e comunque nessun numero sugli istogrammi del rapporto. Ma possiamo confidare veramente nel segnale di buon auspicio che sembra prospettare un sostanziale cambio di paradigma nella gestione dei fiumi? Non ci sono dubbi per quanto riguarda il fiume Giovenco, nel Parco nazionale d’Abruzzo, per il quale la citata notizia riporta l’abbattimento di cinque barriere e la liberazione da ostacoli per un tratto di circa 11 chilometri. Ma da lì a sperare in una svolta culturale che modifichi l’approccio attualmente adottato per la gestione dei corsi d’acqua italiani, forse c’è ancora un enorme divario.
Basta sfogliare le cronache, infatti, per rendersi conto che rispetto alla notizia di rimozione sembrano prevalere ancora proposte fondate su principi ancorati al passato. La definizione di fiume a scorrimento libero, nella recente “Legge sul ripristino della natura” (Nature Restoration Law), prevede una connettività non ostacolata da barriere artificiali nelle tre dimensioni longitudinale, laterale e verticale. Quindi l’eventuale ripristino dovrebbe comprendere almeno la rimozione di barriere che interrompono o modificano il deflusso longitudinale delle acque e che impediscono il collegamento con gli spazi disponibili nella piana inondabile.
La legge, anzi il Regolamento, perché di questo si tratta, pone ovviamente alcune condizioni per giungere allo smantellamento di tali ostacoli, ma da tale intenzione deriva un concetto chiaro: solo restituendo spazio ai fiumi si possono coniugare esigenze di sicurezza idraulica con il ripristino della funzionalità ecologica e della biodiversità. Un principio questo ormai consolidato nel codice delle associazioni ambientaliste come dimostrano i frequenti appelli che invitano alla salvaguardia delle condizioni naturali per garantire elevati standard di sicurezza idraulica, come nel caso dei siti Natura 2000, che ci mettono in guardia dalle false credenze che dilagano spesso nei dibattiti all’indomani delle alluvioni o che, infine, chiedono semplicemente giustificazioni su lavori che sconvolgono gli alvei.
Un principio che invece tende a dissolversi in chi ancora mantiene posizioni conservatrici, nell’errata convinzione che per mitigare il rischio idraulico servano soluzioni basate sull’escavazione dei sedimenti fluviali, dimenticandosi che questa, non solo non garantisce l’abbassamento del rischio, ma riduce il trasporto solido, accentua l’incisione degli alvei e favorisce l’impoverimento delle falde; oppure nel voler ricorrere alla eliminazione della vegetazione riparia, con l’intento di abbassare quell’indice di scabrezza accentuato proprio dagli stessi argini artificiali concepiti, appunto, con lo scopo di restringere lo spazio al fiume e rendere critica la presenza di vegetazione.
Anche affrontare la mitigazione del rischio insistendo su soluzioni basate su misure rigide, come la realizzazione di casse di esondazione, rischia di far perdere di vista l’insidia del “rischio residuo” come spiegato chiaramente da Andrea Nardini in un interessante articolo di alcuni anni fa: «Perché nella pianificazione attuale» scriveva Nardini «si tratta sì il rischio, ma limitatamente a un evento “di riferimento” (…) e assumendo che le opere tengano; invece, eventi superiori a esso sono perfettamente possibili, e sempre più probabili, anzi frequenti e le opere possono collassare».
La variante dei cambiamenti climatici accentua quindi l’insidia del rischio residuo che andrebbe affrontato cercando soluzioni più in linea con l’ecologia fluviale ma, forse, anche col buonsenso. Nessuno quindi che parla di restituire ai fiumi un po’ dello spazio che nel corso dei decenni è stato loro sottratto, obbiettivo che potrebbe essere raggiunto proprio con la riconnessione longitudinale e laterale.
Si tratterebbe di orientare allora gli interventi verso un recupero dello spazio minimo vitale, ispirandosi alla fascia entro la quale storicamente divagava ciascun fiume, o almeno puntare verso un riassetto fluviale che preveda aree non più edificabili e conceda uno spazio, all’interno del quale lasciare libera la divagazione delle acque e la loro capacità modellatrice. Ciò consentirebbe di recuperare parte delle forme legate alle dinamiche fluviali, incrementare il trasporto solido, contrastare l’erosione costiera e ricaricare le falde di acqua preziosa nei periodi di siccità. E, alla fine, mitigare anche il rischio di esondazioni. Sta in questa prospettiva il nodo cruciale del cambio di paradigma che, c’è da sperare, non resti solo nell’immaginazione di pochi.
