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Dal 1966 a oggi: cosa possiamo imparare dalla grande alluvione, a Firenze e non solo

 |  Editoriale

Oggi, 4 novembre, si tiene a Firenze nel Salone dei 500 la Conferenza internazionale sulla riduzione dei rischi da alluvioni e siccità organizzata dal Comitato “One water” in collaborazione con il Ciheam di Bari e con il Mediterranean Water Forum. Una iniziativa che prepara, insieme ad altre già realizzate o che verranno realizzate nell’arco dei prossimi mesi, il Forum euromediterraneo dell'acqua, che si svolgerà presso la Nuvola dell’Eur (a Roma) dal 29 settembre al 2 ottobre del 2026.

Ma siamo a Firenze. E il 4 novembre la Conferenza non potrà non rappresentare anche una occasione per ricordare la storica alluvione del 1966. È il 59° anniversario di quell’evento che è rimasto certamente nella memoria storica della città ma che necessita ogni volta di essere riproposto, specialmente ai più giovani, per evitare un colpevole “oblio”.

Colpevole perché sono passati non pochi anni dalla tragedia e possiamo dire che solo nell’ultimo decennio le istituzioni nazionali, regionali e cittadine hanno messo a punto una strategia di attacco per mitigare il rischio alluvione in città e hanno avviato la lunga serie di opere strutturali per abbassare il livello di pericolosità dell’Arno a fronte di eventi metereologici simili a quelli del 1966.

Ma cosa è successo nel 1966?  Tra il 3 e il 4 novembre 1966, un intenso sistema depressionario atlantico stazionò sull’Italia, alimentato da aria calda e umida da sud-est che si scontrò con aria fredda da nord. Ne risultarono piogge torrenziali e persistenti su un’area vastissima, dal Trentino al Lazio, con accumuli in alcuni casi superiori a 400 mm in 48 ore in molte zone appenniniche e alpine. L’alluvione colpì gran parte dell’Italia centro-settentrionale, non solo Firenze, ma l’intera Toscana, il Veneto, il Friuli-Venezia Giulia, Venezia con l’acqua alta e l’Emilia-Romagna e l’Umbria. In sostanza, il sistema perturbato interessò contemporaneamente tutti i bacini dell’Italia centrale e nord-orientale: in particolare, Arno, Tevere, Adige, Brenta, Piave, Bacchiglione, Ombrone, Reno.  Fu quindi un evento nazionale, non localizzato, con 80 province danneggiate, oltre 100 vittime, decine di migliaia di sfollati e infrastrutture, argini e opere idrauliche gravemente compromessi.

Ma Firenze fu l’emblema di questa calamità nazionale. Primo perché a Firenze l’evento fu particolarmente critico e in secondo luogo perché, oltre a colpire cittadini, imprese e infrastrutture l’acqua produsse danni incalcolabili al patrimonio artistico (Uffizi, Biblioteca Nazionale, Chiese, Archivi, Beni esposti etc). Il Crocifisso di Cimabue conservato nella chiesa di Santa Croce a Firenze divenne l’emblema universale dell’alluvione del 1966 — il simbolo della distruzione, ma, in futuro, anche della rinascita, grazie alla qualità del restauro realizzato, come molti altri beni culturali della città, e della solidarietà diffusa grazie all’emozione che scatenò nel mondo l’immagine del “Cristo nel fango”.

Se si considerano tutti i sottobacini dell’Arno nel novembre 1966 si può dire che si realizzò un “concerto meteorologico” totale. A parte l’area di Arezzo e della Chiana, che non contribuirono quasi per nulla ad aumentare il volume di pioggia complessiva, tutti gli altri bacini con in testa il Valdarno Superiore, il Mugello e il Casentino riversarono in Arno quantità notevoli di pioggia. In generale, nell’intero bacino, ci furono piogge medie nel periodo 24 ottobre-29 ottobre, quindi un periodo di quiete dal 30 ottobre al 2 novembre e alla fine un vero e proprio rovescio nell’arco del 3 e 4 novembre.

Spesso si chiede in città: ma simili livelli di pioggia potrebbero ripresentarsi nel bacino dell’Arno. E quindi, quanto sarebbe possibile un evento alluvionale a Firenze come quello del 1966?

Qui la riposta, senza entrare in elementi di tipo scientifico meteorologico che peraltro non sono di mia competenza, può riguardare tre elementi di valutazione da tenere in considerazione. Il primo riguarda la “probabilità statica” dell’evento alluvione 1966. Ebbene in molte parti del bacino dell’Arno quei livelli di pioggia del 1966 si sono ripetuti anche in anni recenti. Se non uguali, molto vicini a quei livelli. Ma questo non ha riprodotto quel “concerto meteorologico” di cui si parlava in relazione all’evento del 1966. Avere piogge elevate in tutti i sottobacini dell’Arno è un evento probabilisticamente raro. Ma potrebbe accadere.

Il secondo elemento attiene agli effetti del cambiamento climatico. In che modo quello che stiamo vedendo e le previsioni che si fanno sulla meteorologia possono modificare la “probabilità statica” dell’evento alluvione del 1966 aumentandone il livello? Quello a cui stiamo assistendo in questi anni più che un aumento generalizzato delle piogge e degli eventi elevati a grande scala è invece l’aumento della concentrazione in luoghi e in ore ristrette. Questa tipologia di pioggia aumenta notevolmente la possibilità di esondazione di fiumi a livello torrentizio e aumenta in maniera esponenziale la possibilità di allagamenti pluviali a livello urbano.

Quindi si potrebbe arguire, stando alla valutazione dei cambiamenti climatici in atto, che non aumenta tanto la probabilità del concerto meteorologico, che pur rimane possibile e sempre incombente, ma che sembra aumentare in maniera netta e visibile la possibilità di esondazioni e allagamenti molto localizzati, quindi, di più difficile prevedibilità.

Il terzo elemento riguarda l’opera dell’uomo. Per troppo tempo Firenze ha vissuto una sorta di rassegnata speranza rispetto alla possibilità di una alluvione in città. È successo una volta, è stata dura, perché dovrebbe ripetersi di nuovo? Finalmente, dieci anni fa, dopo anni e anni di discussioni e di documenti sulle strategie da seguire, c’è stato un accordo del Governo nazionale, spinto dalla struttura di missione Italiasicura, con la Regione e il Comune che ha puntato a trovare le risorse e a darsi un minimo livello di governance per portare avanti il piano anti dissesto dell’Arno. I lavori non vanno spediti come dovrebbero, certe volte anche per motivi incomprensibili, ma questo è un tipico problema nazionale. Se è vero che le opere strutturali sopra il milione richiedono tempi superiori agli 8 anni, dal momento delle progettazioni a quello del collaudo. Ma la cosa importante è che la realizzazione del Piano complessivo per l’Arno è avviato. Si tratta soltanto di supportarlo con una governance più incisiva e con risorse finanziarie adeguate a ridurre il più possibile i tempi di attuazione.

Magari qualche parola in più andrebbe spesa per il tema allertamento della popolazione e informazione e formazione dei cittadini sulla cultura del rischio idrogeologico dei diversi territori. Si possono fare opere strutturali di difesa ma di certo queste non potranno abbattere mai il rischio a livello zero. Una popolazione che può essere facilmente allertata, meglio in tempo reale che con previsioni del giorno prima, e che ha la cultura della prevenzione del rischio e della gestione delle emergenze è un elemento insostituibile per abbattere il livello dei danni attesi.

La possibilità di laminare circa 60 milioni di mc di acqua in un eventuale picco di piena nella parte superiore dell’Arno potrebbe sembrare un piccolo contributo rispetto ai volumi di acqua che esondarono nel 1966 invadendo aree agricole e urbane del tempo. Ma se vengono considerati come uno strumento dinamico in mano a team di esperti, teso a depotenziare i “picchi più pericolosi” che si potrebbero presentare a fronte di eventi metereologici straordinari nel bacino dell’Arno, non deve essere sottovalutato. Quindi l’opera dell’uomo è importante. E nella Conferenza non a caso vengono presentate varie esperienze in atto per la mitigazione del rischio idrogeologico nelle aree urbane a livello di territorio euromediterraneo. Anche perché oramai, anche nelle aree tradizionalmente aride del mediterraneo, gli eventi alluvionali non sono più casi isolati. E si susseguono anzi con una certa frequenza e intensità. Lo scambio di esperienze in atto, in territori diversi e con diversi tipi di problemi, è importante per far crescere la sensibilità delle istituzioni e, alla fine, anche delle popolazioni che troppo spesso sottovalutano questo tipo di pericolo.

Mauro Grassi

Mauro Grassi, economista, ha lavorato come ricercatore capo nell’Istituto di ricerca per la programmazione economica della Toscana (Irpet), ha lavorato a Roma come dirigente caposegreteria del Sottosegretario ai Trasporti Erasmo D’Angelis (Ministero delle Infrastrutture) e quindi come direttore di Italiasicura (Presidenza del Consiglio) con i Governi Renzi e Gentiloni. Attualmente è consulente e direttore della Fondazione earth and water agenda.