La vera minaccia per l’auto europea? Abbandonare il full electric al 2035. L’Ue frena sull’auto elettrica, ma a pagarne il prezzo saranno industria e consumatori
Ma era veramente necessaria la rinuncia alla scelta del “tutto elettrico” per le nuove auto dal 2035, come annunciato il 16 dicembre dalla Commissione europea? E quali vantaggi economici e climatici comporta questa scelta?
Il Pacchetto Automotive presentato a Strasburgo propone che il target ufficiale di riduzione del 100% delle emissioni per le nuove auto formalmente resti; ma nei fatti viene abbassato a circa il 90%. Crediti gratuiti legati a e-fuels e biocarburanti, bonus per l’uso di acciaio “verde” europeo e supercrediti per le piccole auto elettriche compensano il 10% mancante, creando “spazio” anche per auto non elettriche dopo il 2035 e senza scadenza. Inoltre, l’introduzione di una media triennale delle emissioni di flotta concede di fatto tempo fino al 2032 per raggiungere l’obiettivo del -55%. Questo significa che nel 2030 la quota di auto completamente elettriche potrebbe fermarsi intorno al 45%, invece del 58% previsto dalle regole attuali. Un rallentamento che pesa proprio negli anni decisivi e che rende più difficile per gli Stati membri rispettare gli obiettivi climatici complessivi.
La Commissione propone di creare anche una nuova categoria di piccole elettriche M1E (fino a 4,2 metri) e questa è una scelta interessante. In parallelo, la “Battery Booster Strategy” mobilita 1,8 miliardi di euro (di cui 1,5 miliardi in prestiti a tasso zero) più 300 milioni per materie prime, e le misure sulle flotte aziendali e sugli incentivi legano il sostegno pubblico a veicoli a basse/zero emissioni prodotti in Europa. Però, gli obiettivi per furgoni e camion vengono alleggeriti (in particolare sono proposte esenzioni per alcuni e‑van da tachigrafi e limitatori di velocità, con benefici di costo ma rischi per sicurezza stradale e condizioni di lavoro). E la nuova proposta sulle flotte aziendali consente di rispettare i target anche solo con ibride plug-in: un’impostazione che riduce l’impatto reale su emissioni e qualità dell’aria e rischia di far pagare di più le aziende per veicoli meno efficaci dal punto di vista climatico. Nel complesso, si tratta di una strategia abbastanza forte sul sostegno industriale e sul “made in Eu”, ma più debole su CO₂, qualità dell’aria e sicurezza rispetto alla normativa attuale.
La ragione principale che ha portato la Commissione europea a cedere alle pressioni delle case automobilistiche e di molti governi, fra cui quello italiano, è che si sono convinti che è possibile evitare per ora di uscire completamente dal motore a combustione interna e da tutto il sistema industriale che gravita intorno, mantenendo comunque un livello sufficientemente ambizioso di riduzione delle emissioni e salvaguardando anche quella parte dell’industria europea dell’auto che non sarebbe ancora pronta al “tutto elettrico”.
Il punto è che le cosiddette “alternative” all’elettrico, non reggono a un’analisi seria. Le ibride plug-in emettono in condizioni reali fino a cinque volte più CO₂ di quanto dichiarato e costano ai consumatori circa 500 euro l’anno in più rispetto alle attese, perché utilizzano molto più carburante di quanto previsto al momento dell’acquisto. I range extender combinano autonomie elettriche limitate con consumi da Suv quando entra in funzione il motore termico. I biocarburanti, se si considerano deforestazione e uso del suolo, possono emettere più CO₂ dei combustibili fossili, continuano a inquinare l’aria, si pongono in competizione diretta con la produzione di cibo e se vengono prodotti in modo veramente sostenibile non saranno mai sufficienti a riempire i serbatoi delle auto: meglio riservarli per settori che sono difficili da elettrificare, come l’aviazione e la navigazione; quanto ai carburanti sintetici, questi sono estremamente inefficienti e molto costosi: potrebbero aggiungere fino a 2.000 euro all’anno ai costi di utilizzo di un’auto rispetto a un’elettrica, senza eliminare gli inquinanti atmosferici.
Tutto questo ci dice che la fine dei motori a combustione interna entro il 2035 non è un capriccio ideologico né un azzardo tecnologico: è una scelta industriale che rimane necessaria. Rinviarla o indebolirla significa esporre l’industria automobilistica europea a rischi molto concreti, in termini di competitività, occupazione e leadership tecnologica. Il futuro dell’auto è elettrico, e l’Europa deve affrontare questo cambiamento con chiarezza e rapidità.
Anche perché i fatti mostrano che gli standard europei sulle emissioni di CO₂ stanno funzionando. Non c’è alcuna evidenza che giustifichi una revisione al ribasso degli obiettivi per il 2030 o il 2035. Tutti i principali costruttori europei sono sulla buona strada per rispettare i target fissati per il periodo 2025–2027. Anche l’unico grande gruppo attualmente in ritardo, Mercedes, può compensare acquistando crediti da produttori in surplus, evitando sanzioni. Non è quindi l’industria nel suo complesso a essere in difficoltà in particolare sulla transizione all’elettrico, ma una parte di essa che fatica ad adattarsi, che ha influenza e potere su governi e media, oltre a un facile accesso in Commissione, e che oggi spinge per rallentare il quadro normativo.
Il mercato conferma questa traiettoria. Nel 2025 le vendite di auto elettriche a batteria stanno crescendo rapidamente in gran parte dell’Unione. In dieci Stati membri si registrano quote record: in Danimarca le elettriche rappresentano il 70% delle nuove immatricolazioni, in Belgio e Finlandia oltre un terzo, in Francia e Germania quasi il 20%. Complessivamente, nel terzo trimestre del 2025 le auto completamente elettriche hanno raggiunto il 17,4% delle vendite di auto nuove in Europa. L’Italia, con poco più del 5%, resta un’eccezione negativa, ma con dati in netta crescita.
Questo sviluppo non è casuale. È il risultato diretto delle norme sugli standard Ue sulla CO₂, che hanno costretto i costruttori a investire e a portare sul mercato modelli elettrici più piccoli e più accessibili. Tra la fine del 2024 e il 2025 sono arrivati modelli pensati per la classe media, come la nuova Renault 5 elettrica o le versioni compatte della gamma Volkswagen e Bmw. Entro la fine del 2025 saranno disponibili nove modelli elettrici con un prezzo di partenza intorno ai 25.000 euro, che diventeranno diciannove entro il 2027. Senza obiettivi stringenti, e una direzione chiara questa offerta non esisterebbe.
A rafforzare questa tendenza contribuisce anche la riduzione dei costi delle batterie, che secondo le stime diminuiranno di quasi il 30% entro il 2027. Questo renderà possibili auto elettriche ancora più accessibili, facilitando il raggiungimento degli obiettivi per il 2030. Parallelamente, l’infrastruttura di ricarica si sta espandendo rapidamente: tutti i Paesi Ue hanno già raggiunto i target per il 2025 e oltre tre quarti della rete autostradale principale è coperta da ricarica ultraveloce. L’idea che manchino le condizioni per una diffusione di massa dell’elettrico non è più cosi fondata.
Rallentare ora la transizione è una scelta che non è coerente con il principio della “neutralità tecnologica”. Secondo le analisi di Transport & Environment, tornare indietro sul phase-out dei motori a combustione nel 2035 potrebbe portare alla perdita di circa 1 milione di posti di lavoro lungo la filiera automobilistica europea, comprese le batterie e la perdita di investimenti pianificati in batterie e attività collegate. Nello stesso scenario, si parla anche di un potenziale calo di valore aggiunto e di un colpo all’ecosistema della ricarica. Il motivo è semplice: la concorrenza globale non aspetta. Se l’Europa manda il messaggio che l’elettrico è negoziabile, gli investimenti potrebbero seguire mercati meno esitanti.
Inoltre, indebolire gli obiettivi europei è un regalo ai concorrenti cinesi. Grazie a una strategia industriale coerente e a un chiaro orientamento verso l’elettrico, la Cina è oggi in netto vantaggio nella produzione di massa di veicoli elettrici e, soprattutto, di batterie. Nel 2024 ha concentrato l’80% della produzione globale di celle e oltre il 90% di alcuni componenti chiave. Marchi come Byd hanno già superato Tesla nelle vendite globali e stanno entrando con forza nel mercato europeo, anche grazie a nuovi stabilimenti in Turchia e Ungheria. Se l’Europa rallenta, il divario tecnologico e industriale non farà che aumentare.
All’interno dell’industria europea, del resto, non esiste una posizione unitaria. Accanto alle pressioni di alcune associazioni industriali e sindacali per “un approccio pragmatico” che prolunghi l’uso di ibride e carburanti alternativi, si levano voci chiare in direzione opposta. I vertici di Audi, Volvo e Polestar affermano senza ambiguità che l’auto elettrica è la tecnologia migliore, non solo per il clima ma anche per le prestazioni, l’efficienza e l’innovazione. Continuare a riaprire il dibattito sul motore a combustione, avvertono, destabilizza i consumatori e scoraggia gli investimenti.
In conclusione, NO, non era necessario rinunciare a metà del percorso al “tutto elettrico”. E i vantaggi economici e sociali di questa scelta sono difficili da cogliere. Anzi, rischiamo di perdere la partita industriale oltre a quella climatica.
Anche perché la proposta della Commissione di ieri è solo il punto di partenza di un processo legislativo che coinvolgerà Stati membri e Parlamento europeo, molto permeabili alle lobby più arretrate e vicine alla destra maggioritaria. E già si sono sentite voci che ritengono che questo pacchetto sia ancora troppo ambizioso, che sia necessario diminuire di molto la percentuale di riduzione delle emissioni al 2035, aumentare lo spazio di biocarburanti, e-fuels e mollare condizioni e limiti.
Per questo la fase che si apre ora, a Bruxelles e in Italia, è decisiva e chiama all’azione politica, imprese, società civile che sanno che il futuro è la mobilità elettrica nell’ambito di una più vasta transizione ecologica. Poiché questo pacchetto è solo all’inizio del suo percorso, può ancora migliorare o peggiorare molto. Bisogna evitare che le flessibilità diventino scappatoie permanenti; correggere il trattamento delle ibride plug‑in basandosi sulle loro emissioni e costi reali; limitare biocarburanti ed e‑fuel ai settori davvero difficili da elettrificare; rafforzare i target 2030 che guidano investimenti e occupazione; allineare definitivamente politica climatica e industriale investendo su batterie, software, ricarica e competenze.
In gioco ci sono il clima, la salute dei cittadini, la competitività dell’industria italiana ed europea e la direzione della mobilità del futuro in Europa. In un contesto globale in cui Asia e altri mercati emergenti stanno accelerando, l’Ue ha bisogno di certezze regolatorie, non di continui ripensamenti. Difendere obiettivi ambiziosi su CO₂ e accompagnarli con una politica industriale solida è l’unico modo per proteggere posti di lavoro, competitività e autonomia tecnologica. Tutto il resto è una perdita di tempo e risorse che non ci possiamo permettere.