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Difesa nazionale e Via: quando la semplificazione diventa elusione del sistema

La tutela dell’ambiente non può essere considerata un ostacolo burocratico, ma un elemento essenziale della legalità costituzionale e dell’equilibrio tra interessi pubblici
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In un clima politico e istituzionale sempre più orientato alla semplificazione delle procedure per le grandi opere, anche il comparto della difesa nazionale entra nel novero degli interventi agevolati in forza di un emendamento al Decreto Infrastrutture, approvato in Commissione, che prevede la possibilità di snellire –  fino a escludere – le valutazioni di impatto ambientale ordinarie per tutte le opere destinate alla difesa nazionale.

A ben vedere, l’articolo 6, comma 4, del D.Lgs. n. 152/06 già oggi consente, per i progetti destinati alla difesa nazionale soggetti a segreto o a misure speciali di sicurezza, una valutazione caso per caso da parte del Ministero dell’Ambiente. Tuttavia, l’emendamento interviene comprimendo drasticamente i tempi (30 giorni), con il rischio di trasformare una facoltà discrezionale in una sorta di automatismo accelerato, che può ulteriormente svuotare di contenuto i meccanismi di garanzia ambientale. Secondo la nuova formulazione normativa, per le opere ritenute funzionali alla difesa nazionale si introduce una disciplina speciale che consente di accelerare l’iter approvativo, derogando – in tutto o in parte – agli ordinari obblighi di valutazione ambientale e paesaggistica. In pratica, l’interesse militare viene collocato su un piano superiore rispetto alle tutele previste per il territorio, con il rischio concreto che interventi anche molto impattanti possano essere autorizzati senza un esame approfondito dei loro effetti su ecosistemi, paesaggi tutelati o beni culturali.

A tal proposito, tale lettura derogatoria trova un importante precedente nella giurisprudenza amministrativa: nel 2005, il TAR Abruzzo, con una sentenza ancora oggi citata rispetto ad un’installazione della Guardia di Finanza all’interno del parco Nazionale della Maiella, aveva stabilito che le opere destinate alla difesa nazionale possono essere realizzate anche in aree vincolate senza necessità di autorizzazione paesaggistica basando tale decisione sul fatto che, in mancanza del decreto attuativo previsto dal Codice dei beni culturali del 2004, restava in vigore il regime previsto dal D.P.R. n. 383/1994, che consente di superare i dinieghi locali per le opere pubbliche strategiche statali.

Proprio questo aspetto è decisivo anche oggi per correttamente inquadrare l’emendamento in esame: il Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004 aveva previsto l’adozione di un DPCM, da emanarsi di concerto tra il Ministero della Cultura e quello della Difesa, per regolare nel dettaglio le modalità di autorizzazione paesaggistica per le opere militari. Ma a distanza di oltre vent’anni, quel DPCM non è mai stato adottato. Questo vuoto normativo ha di fatto mantenuto in vigore il regime derogatorio del 1994, che consente la realizzazione di opere di difesa anche in aree vincolate, senza i necessari ed obbligatori passaggi valutativi ordinari.

L’emendamento al Decreto Infrastrutture, oggi, quindi, si inserisce in questo contesto, trasformando una prassi fondata sull’assenza di regolazione in una norma esplicita di semplificazione. Ora, la questione è ulteriormente resa complessa dalla nozione di “opera strategica”, concetto estremamente ampio che, in assenza di un criterio univoco, puntuale e trasparente, si presta facilmente a interpretazioni fortemente estensive, fino a ricomprendere interventi di rilevanza secondaria, aspetto questo che certamente stride con la legge costituzionale n. 1/2022 che, apportando modifiche agli artt. 9 e 22 della Costituzione ha colmato i vuoti per una tutela del bene ambiente che sia efficace e costituzionalmente riconosciuta.

Ora, vero è che anche l’art. 52 riconosce il dovere di difesa della Patria, ma la Corte Costituzionale, prima ancora della succitata riforma costituzionale che ha riconosciuto il bene ambiente quale principio cardine, ha più volte ribadito l’essenziale bilanciamento perfetto entro cui i diritti riconosciuti proprio dalla nostra Costituzione e posti a fondamento dello Stato possono essere contemperati. Ed è proprio l’assenza del DPCM attuativo previsto dal Codice dei beni culturali a rappresentare una evidente lacuna normativa, privando le autorità di una base certa su cui operare quel necessario bilanciamento. In sua mancanza, la prevalenza dell’interesse militare viene applicata in modo pressoché automatico senza alcuna valutazione di merito preventiva con il rischio, più evidente che celato, che la semplificazione possa coincidere con una assenza di tutele.

La tutela del paesaggio e dell’ambiente non può essere considerata un ostacolo burocratico, ma un elemento essenziale della legalità costituzionale e dell’equilibrio tra interessi pubblici. Senza un sistema chiaro, trasparente e condiviso per definire e autorizzare le opere militari, ogni intervento rischia di alimentare zone grigie normative e tensioni istituzionali. Recuperare il senso del bilanciamento tra esigenze di difesa e tutela del territorio non è un vincolo formale, ma un dovere giuridico e democratico. E colmare quel vuoto normativo – a partire dall’adozione del DPCM previsto dal Codice – non è più solo un’urgenza amministrativa, ma una responsabilità politica verso l’ambiente, la Costituzione e le generazioni future.

Simone Spinelli

Simone Spinelli, nato a Taranto, si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Perugia approfondendo le tematiche di diritto penale ambientale con una tesi di laurea sul processo allo stabilimento exILVA di Taranto. Dal 2020 collabora quale consulente legale con un primario Studio legale in Roma dove ha approfondito il mondo della compliance aziendale con un particolare focus su tematiche ambientali, Modelli di organizzazione, gestione e controllo ex D.Lgs. n. 231/01, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e privacy.