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Il continente sommerso dagli scarti dell’Occidente

L’Africa affoga nei rifiuti tessili europei

Greenpeace: «Il 46% degli abiti usati viene dall’Europa e spesso finisce in discarica, colpa soprattutto del fast fashion»
 |  Inquinamenti e disinquinamenti

Ogni anno l’industria globale della moda produce oltre 83 milioni di tonnellate di rifiuti tessili. Un’enormità che viaggia attraverso oceani e continenti per finire, troppo spesso, laddove le vetrine non arrivano: in Africa. Un nuovo report pubblicato da Greenpeace Africa – dal titolo Draped in Injustice – indaga il commercio internazionale di abiti usati, svelando gli impatti ambientali e sanitari che questa pratica comporta per molti Paesi africani, diventati il terminale finale di un sistema fuori controllo.

Secondo il rapporto, nel 2019 il 46% del tessile usato esportato dall’Unione Europea è finito in Africa. Una parte consistente di questi abiti, circa la metà, si è rivelata subito invendibile: indumenti danneggiati, sintetici, inadatti al riutilizzo, che vengono scaricati in discariche abusive, bruciati all’aperto o finiscono direttamente nei corsi d’acqua. È il caso del Kenya, che nel solo 2021 ha ricevuto 900 milioni di capi – perlopiù provenienti da Regno Unito ed Europa – dei quali il 50% è diventato rifiuto appena sbarcato, accumulandosi nella famigerata discarica di Dandora o finendo a galleggiare nel fiume Nairobi. In Uganda, dove nel 2023 sono state importate 100 mila tonnellate di abiti usati, si stima che fino a 48 tonnellate al giorno si trasformino in rifiuti tessili. E in Ghana, ogni settimana, arrivano circa 15 milioni di indumenti di seconda mano, anche questi per metà destinati a inquinare l’ambiente locale.

Proprio ad Accra, capitale del Ghana, Greenpeace e il team investigativo di Unearthed hanno documentato con immagini e analisi quello che da anni denunciano le comunità locali: immense distese di vestiti scartati si estendono in aree umide protette dalla Convenzione di Ramsar, ecosistemi fondamentali per tre specie di tartarughe marine. Reti da pesca, fiumi e spiagge vengono soffocati da tessuti sintetici provenienti da aziende di fast fashion britanniche ed europee. Tra i marchi identificati in una discarica sulle rive di un affluente dell’area protetta, figurano M&S, Zara, H&M e Primark.

A preoccupare non è solo l’inquinamento visibile. L’intero modello produttivo dell’industria della moda – sempre più dominata dal fast fashion e dal suo derivato estremo, l’ultra fast fashion – è fortemente insostenibile. Oltre a contribuire fino al 10% delle emissioni globali di gas serra, a causa dei processi energivori delle catene di fornitura, la produzione tessile si basa su fibre sintetiche ottenute da petrolio e su migliaia di sostanze chimiche, almeno 250 delle quali classificate come pericolose. I rifiuti tessili, abbandonati nei terreni e nei corsi d’acqua, rilasciano microplastiche e sostanze tossiche che minacciano la salute umana e quella degli ecosistemi, compromettendo anche la capacità degli oceani di assorbire carbonio.

Di fronte a questo scenario, Greenpeace chiede una risposta politica all’altezza della crisi. «Il documento pubblicato da Greenpeace Africa descrive una situazione allarmante, evidenziando gli impatti ambientali e sanitari di un fenomeno ormai fuori controllo: il commercio degli abiti usati in territori estremamente vulnerabili» – afferma Chiara Campione di Greenpeace Italia – «Per affrontare la crisi dei rifiuti tessili devono essere messe in atto nuove politiche che riescano a contrastare efficacemente l’inquinamento ambientale. È fondamentale affrontare il problema all’origine, intervenendo su sistemi di produzione insostenibili come il fast fashion e l’ultra fast fashion».

Nel marzo 2022, l’Unione Europea ha adottato la Strategia per prodotti tessili sostenibili e circolari, che prevede un’estensione della responsabilità del produttore a tutto il ciclo di vita del prodotto. Una direzione necessaria, ma che per ora resta priva di strumenti vincolanti, soprattutto per quanto riguarda le esportazioni verso i Paesi non OCSE. Greenpeace denuncia che manca ancora un quadro globale in grado di garantire la piena responsabilità dei produttori e di sostenere concretamente le comunità più colpite da questo flusso di rifiuti.

L’organizzazione ambientalista, oltre a chiedere un ambizioso Trattato globale sulla plastica che includa anche i tessuti sintetici, punta su un cambiamento sistemico: nuove regole sul design ecologico dei capi, divieto di sostanze chimiche pericolose, infrastrutture per la raccolta e il riciclo, investimenti nella produzione locale e campagne educative per sensibilizzare i cittadini sui costi reali della moda usa e getta.

Anche i consumatori possono fare la propria parte. Per questo Greenpeace Italia ha pubblicato Oltre il fast fashion, un manuale scaricabile gratuitamente, che offre consigli pratici per scegliere in modo più consapevole, riconoscere le certificazioni più affidabili e ridurre il proprio impatto attraverso la riparazione, il riuso e l’upcycling. La guida è disponibile per tutti coloro che firmano la nuova petizione promossa contro il dilagare dell’ultra fast fashion.

Il sistema attuale non è più sostenibile. Mentre l’industria continua a spingere sulle vendite e i prezzi stracciati, milioni di abiti dismessi attraversano il pianeta per finire dove la moda non era destinata a giungere: nelle discariche del Sud del mondo, tra comunità abbandonate e ambienti naturali distrutti.

Vincenza Soldano

Vincenza per l’anagrafe, Enza per chiunque la conosca, nasce a Livorno il 18/08/1990. Perito chimico ad indirizzo biologico, nutre da sempre un particolare interesse per le tematiche ambientali, che può coltivare in ambito lavorativo a partire dal 2018, quando entra a fare parte della redazione di Greenreport.it