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Analisi di Greenpeace sulle acque minerali vendute in Italia: Pfas rilevati in sei marche su otto

Sono state rinvenute tracce di Tfa in tutti i campioni esaminati tranne in quelli Ferrarelle e San Benedetto. Germania, Danimarca, Francia: in Europa si stanno prendendo misure per combattere la diffusione di queste «sostanze chimiche perenni» dannose alla salute, in Italia di divieti ad aziende o prodotti neanche se ne parla
 |  Inquinamenti e disinquinamenti

La scorsa primavera, la rivista di Zurigo K-Tipp ha pubblicato gli esiti di una serie di analisi realizzate su campioni di acque minerali elvetiche e francesi vendute in Svizzera. Sebbene gli imbottigliatori sottolineino che l’acqua minerale naturale proviene da sorgenti sotterranee protette, dall’indagine è venuta fuori nella stragrande maggioranza delle marche in commercio la presenza di acido trifluoroacetico (Tfa), una sostanza chimica del gruppo delle per- e polifluoroalchiliche, note come Pfas, o «sostanze chimiche perenni». E ora viene fuori che al di qua delle Alpi la situazione non è affatto migliore.

Dopo aver condotto una serie di analisi sulle acque potabili che escono dai rubinetti delle diverse regioni italiane, da cui è emersa una contaminazione da Pfas nel 79% dei campioni esaminati e a cui era seguita anche un’uscita da parte dei gestori idrici, Greenpeace ha portato avanti nei mesi scorsi un’altra indagine: ha acquistato presso un supermercato di Roma sedici bottiglie di acqua minerale, appartenenti agli otto marchi più diffusi nel nostro Paese e le ha inviate a due diversi laboratori – otto bottiglie in Germania e otto in Italia – per testare l’eventuale presenza di Pfas. Le marche sono: Ferrarelle, Levissima, Panna, Rocchetta, San Benedetto, San Pellegrino, Sant’Anna e Uliveto.

L’esito di questi esami viene ora raccontato in un documento dal titolo “Pfas in bottiglia” con allegato anche un report tecnico. Bastano però poche righe per consegnare il quadro di quanto emerso: «Nei campioni d’acqua di Ferrarelle e San Benedetto Naturale non è stata rilevata alcuna presenza di Pfas – il che significa che le concentrazioni di tali sostanze in questi campioni sono risultate inferiori al limite di rilevabilità di 50 ng/L – mentre nei restanti campioni appartenenti a Levissima, Panna, Rocchetta, San Pellegrino, Sant’Anna e Uliveto è stato invece rilevato proprio il Tfa. Il campione che ha fatto registrare il valore più elevato di acido trifluoroacetico è quello appartenente all’acqua Panna, (700ng/l), seguito dal campione del marchio Levissima (570 ng/l) e dal campione di acqua Sant’Anna (440 ng/l)». Greenpeace Italia fa sapere di aver inviato questi risultati alle aziende proprietarie dei marchi in cui sono state trovate tracce di Tfa: «Nessuna delle realtà contattate ha voluto commentare».

Dunque il Tfa è l’unico Pfas rilevato nei campioni presi in esame, nessuno dei quali conteneva sostanze appartenenti al gruppo dei 20 Pfas regolamentati dalla direttiva Ue sull’acqua potabile né sostanze appartenenti al gruppo Pfas-4 (Pfoa, Pfos, PfHxS e Pfna), classificate come particolarmente pericolose. Notizia positiva? Il fatto è che il Tfa è una sostanza del gruppo Pfas nota da tempo, ma solo di recente si stanno indagando i suoi possibili effetti per la salute umana. Le autorità tedesche hanno classificato il Tfa come «tossico per la riproduzione» e «molto mobile e persistente». Questa sostanza può derivare dalla degradazione di altri Pfas rilasciati nell’ambiente e si accumula negli organismi viventi, sia animali che vegetali.

I valori di Tfa rinvenuti nei campioni raccolti da Greenpeace Italia (tra circa 70 e 700 ng/l) si allineano – anche se con valori leggermente inferiori – a quelli ottenuti da altre indagini in vari Paesi europei (tra 370 e 3.300 ng/l). Insomma, sottolinea l’organizzazione ambientalista, non si tratta di una questione limitata al nostro Paese.

Vero è però che non tutti gli Stati europei si stanno muovendo allo stesso modo per far fronte a un problema diffuso, che non conosce confini europei, età anagrafiche, stato sociale, come dimostra un recente esperimento condotto dall’European environmental bureau (Eeb), dal quale è emersa la presenza di Pfas nel sangue di 24 leader europei di 19 diversi Stati Ue. La soluzione è vietare alle aziende produttrici di var settori l’utilizzo di queste sostanze chimiche permanenti. E si può fare: la Danimarca già un anno e mezzo fa oltre a mettere al bando una serie di prodotti contenenti Pfas ha anche stanziato 54 milioni di euro per un Piano nazionale ad hoc, mentre più recentemente la Francia ha vietato dal 2026 tessuti e cosmetici che presentino tracce di Pfas. E in Italia? Nei mesi scorsi il governo Meloni ha approvato un decreto sulla riduzione dei livelli consentiti di Pfas nell’acqua, ma nessun atto è stato ancora compiuto per mettere al bando questi inquinanti perenni. 

Per quanto riguarda poi in particolare il Tfa, una mozione sui Pfas della maggioranza di governo approvata alla Camera dei deputati, la numero 1-00419, non cita proprio questa sostanza. Al contrario, lo scorso anno la Germania presentato all’Agenzia europea per le sostanze chimiche (Echa) una richiesta di classificazione del Tfa come agente tossico per la riproduzione. Se l’Echa darà parere positivo, il Tfa potrebbe essere classificato come «metabolita rilevante» delle sostanze attive nei prodotti fitosanitari. Come sottolinea Greenpeace, ciò verosimilmente significherebbe che, in conformità con l’ordinanza tedesca sull’acqua potabile (TrinkwV), non sarebbe consentito superare il valore limite di 100 ng/l. Un vincolo, fa notare l’organizzazione ambientalista, che potrebbe essere esteso all’acqua potabile di tutti i Paesi europei.

Aggiornamento 14/10/25In merito all’indagine pubblicata da Greenpeace sulla presenza di TFA e PFAS nelle acque minerali, Mineracqua – la Federazione Italiana delle Industrie delle Acque Minerali Naturali – è intervenuta con una nota per affermare: Innanzitutto, come emerge dall’indagine di Greenpeace i PFAS non sono stati riscontrati nelle acque minerali italiane analizzate. Quanto al TFA (Acido Trifluoroacetico), composto ampiamente diffuso nell’ambiente derivante da molteplici fonti industriali (pesticidi, fluidi refrigeranti, sistemi di trattamento delle acque reflue, ecc…) e non riconducibile a specifiche attività  legate all’imbottigliamento delle acque minerali, tutti i test condotti fino ad oggi su scala europea, comprese le analisi di autocontrollo delle aziende, indicano che le concentrazioni di TFA nelle acque minerali sono estremamente basse e non correlate a rischi per la salute. Il laboratorio indipendente tedesco Fresenius, su incarico di Mineracqua, ha approfondito l’eventuale presenza di TFA nelle acque minerali italiane attraverso una campagna analitica che ha evidenziato tracce altamente al di sotto rispetto ai limiti attualmente previsti per le acque potabili. Il Governo italiano, riconoscendo la rilevanza dell’inquinamento da TFA, ne ha recentemente introdotto un limite per le sole acque potabili, fissandolo a 10 µg/l (microgrammi per litro), a partire dal 2027. Se confrontate con questo limite - l’unico attualmente esistente poiché ad oggi per le acque minerali non esiste a livello europeo un limite di legge - le acque minerali analizzate da Greenpeace hanno riscontrato tracce di TFA enormemente inferiori. Infatti, l’acqua minerale con il valore più alto di TFA è pari a 0,7 µg/l, circa quindici volte inferiore al limite fissato per le acque potabili. A livello europeo, non esiste ancora una metodologia di analisi standardizzata per la determinazione del TFA, tanto è vero che le analisi eseguite per conto di Greenpeace da due laboratori - uno italiano e uno tedesco - sulla stessa acqua minerale hanno dato risultati estremamente diversi (in un caso rispettivamente 0,1 µg/l e 0,7 µg/l).  Questa enorme discrepanza di valori sulla stessa acqua non contribuisce certo a conferire credibilità scientifica all’indagine di Greenpeace e, di conseguenza, non ne giustifica i toni allarmistici che vanno a discredito del settore delle acque minerali.

Simone Collini

Dottore di ricerca in Filosofia e giornalista professionista. Ha lavorato come cronista parlamentare e caposervizio politico al quotidiano l’Unità. Ha scritto per il sito web dell’Agenzia spaziale italiana e per la rivista Global Science. Come esperto in comunicazione politico-istituzionale ha ricoperto il ruolo di portavoce del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nel biennio 2017-2018. Consulente per la comunicazione e attività di ufficio stampa anche per l’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino centrale, Unisin/Confsal, Ordine degli Architetti di Roma. Ha pubblicato con Castelvecchi il libro “Di sana pianta – L’innovazione e il buon governo”.