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Intervista all’ideatrice e curatrice Elisabetta Di Stefano

Un libro d'arte biodiverso per "sentire" la biodiversità, oltre che capirla

«La sfida più grande resta la comunicazione: rendere percepibile ciò che gli scienziati già sanno e denunciano da anni»
 |  Interviste

Docente di Estetica dell’Università di Palermo, Elisabetta Di Stefano è ideatrice e curatrice – insieme a Diego Mantoan – del nuovo “Libro d’arte biodiverso. Parole e immagini tra estetica, arte e ambiente” (Bisso Edizioni): un’opera che oltrepassa i tradizionali confini che le discipline accademiche impongono, per aggregare pensieri, menti ed esperienze diverse. Anzi, biodiverse.

Intervista

Libro d’arte o libro d’artista?

«Nel mio saggio introduttivo al volume Libro d’arte biodiverso chiarisco subito che l’opera sfugge a una classificazione rigida. È un'opera ibrida che intreccia due tradizioni: da un lato è un libro d’arte, per la cura editoriale e la qualità estetica che lo rendono un oggetto prezioso; dall’altro si avvicina al libro d’artista per la sua struttura sperimentale e il rapporto non gerarchico tra testo e immagine. I testi non illustrano le immagini, né viceversa: entrambi nascono da una radice comune – una serie di parole-aggettivi – che generano un doppio sviluppo, poetico e visivo, trasformando concetti astratti in esperienze sensoriali».

Com’è nata l’idea del Libro d’arte biodiverso ?

«Nasce come evoluzione di un workshop interdisciplinare incentrato sui linguaggi dell’arte come strumenti di comunicazione ecologica. È in quel contesto che è nata la collaborazione con l’artista Laura Pitingaro, autrice delle immagini del volume.

Il progetto prende forma dal desiderio di unire arte, estetica e scienze ambientali per rendere il concetto di biodiversità più accessibile, più vicino alla percezione e all’emozione, non solo alla razionalità. Promosso dal National Biodiversity Future Center e cofinanziato dal programma NextGenerationEU, il libro è frutto di un lavoro multidisciplinare che considera la biodiversità non solo come fatto scientifico, ma come fenomeno culturale, sociale, percettivo».

Come sono stati scelti gli aggettivi che guidano i testi e le immagini?

«La scelta degli aggettivi nasce da un lavoro collettivo e intuitivo, guidato dalla volontà di restituire la biodiversità non solo nella sua dimensione descrittiva, ma in quella affettiva, esistenziale, relazionale. Gli aggettivi non sono meri attributi: sono stimoli poetici, immagini linguistiche che aprono mondi. Alcuni evocano stati d’animo (come “sensibile”), altri suggeriscono fenomeni naturali (“acquatico”), altri ancora tensioni sociali o ecologiche (“invasivo”). Non manca chi ha scelto di riflettere sulla complessità stessa del vivente (“complesso”), sottolineando l’intreccio dinamico di elementi biologici, culturali e percettivi che definisce la biodiversità. Lavorare su questi aggettivi ha permesso di evitare il tono didascalico e di favorire un approccio riflessivo, evocativo, interattivo».

A chi è destinato questo volume?

«Il Libro d’arte biodiverso si rivolge a un pubblico ampio ma consapevole: lettori sensibili all’arte e all’ambiente, studiosi e studenti delle scienze umane e naturali, cittadini attenti al cambiamento climatico e alla crisi ecologica. Il suo intento è quello di generare consapevolezza sensibile, nel senso proprio dell’aisthesis: non solo fornire informazioni, ma suscitare un’esperienza estetica che faccia “sentire” la biodiversità, oltre che capirla».

Quali difficoltà avete incontrato e quali soddisfazioni avete ottenuto?

«La principale difficoltà è stata trovare un equilibrio tra approcci diversi – scientifico, filosofico, artistico – mantenendo coerenza e rigore, ma senza sacrificare la libertà creativa. Anche la progettazione editoriale ha richiesto grande attenzione, poiché si trattava di realizzare un oggetto che fosse a sua volta espressione estetica del contenuto. Ogni autore ha lavorato su un aggettivo, restituendolo in forma di testo breve ma denso, mentre l’artista ha seguito un processo autonomo ma sintonico, sviluppando immagini ispirate alle stesse parole.

La maggiore soddisfazione è quella di aver realizzato un’opera che riesce a tradurre il concetto di biodiversità in una forma tangibile, emozionante, accessibile».

In che modo questo libro si differenzia da altre forme di comunicazione ambientale?

«Rispetto alla comunicazione ambientale tradizionale, spesso ancorata al dato tecnico o all’allarme scientifico, questo libro propone un’altra via: quella dell’esperienza sensibile. Non si limita a trasmettere contenuti, ma li trasforma in immagini e parole capaci di suscitare empatia e meraviglia. È un modello che supera la logica unidirezionale del “messaggio da recepire” e promuove un coinvolgimento attivo, percettivo, immaginativo. In questo senso, si colloca nel solco di quelle pratiche artistiche e culturali che intendono l’arte come spazio di riflessione, partecipazione e cura, in dialogo con le urgenze del presente».

Il progetto si inserisce in un panorama più ampio di dialogo tra arte e scienza. Che ruolo può giocare l’università in questo processo?

«Credo che l’università possa essere uno spazio privilegiato per favorire l’incontro tra mondi che tradizionalmente dialogano poco: arte e scienza, filosofia e biologia. In questo progetto, l’Università di Palermo ha dimostrato che è possibile attivare queste connessioni non solo nella ricerca, ma anche nella didattica e nella produzione culturale. È un modello replicabile, soprattutto se supportato da metodi innovativi di divulgazione. E può ispirare anche nuove forme di terza missione: progetti che parlano al territorio e lo coinvolgono attivamente».

Quanto pensa che il mondo accademico sia sensibile alla crisi della biodiversità?

«Il fatto che questo progetto sia stato sostenuto da un centro nazionale di ricerca scientifica e realizzato da due docenti universitari insieme a un’artista indipendente suggerisce una crescente sensibilità accademica verso le tematiche ecologiche. Tuttavia, la sfida più grande resta la comunicazione: rendere percepibile ciò che gli scienziati già sanno e denunciano da anni. In questo senso, il Libro d’arte biodiverso rappresenta un esperimento originale, forse unico nel contesto accademico (non solo) palermitano, che cerca di connettere saperi e sensibilità in un linguaggio nuovo, accessibile e coinvolgente».

Che cosa le ha lasciato questa esperienza?

«Mi ha confermato quanto sia urgente colmare la distanza tra sapere accademico e sensibilità pubblica. Un’estetica della cura, che si manifesta nei contenuti, nelle immagini, nella forma del libro, può contribuire a far emergere questa urgenza. Il Libro d’arte biodiverso è un invito a ripensare il nostro rapporto con la natura non in termini di dominio o astrazione, ma di ascolto, responsabilità e bellezza. È un progetto che unisce rigore e passione, e che mi ha permesso di vivere un raro esempio di intelligenza collettiva e creatività condivisa».

Elisa e Diego

Sabrina Lo Brutto

Sabrina Lo Brutto, Professoressa di Zoologia del Dipartimento di Scienze della Terra e del Mare (DiSTeM) dell’Università di Palermo. Insegna nei Corsi di Laurea in Scienze Biologiche e Scienze del Turismo. Svolge attività di ricerca indirizzata allo studio della biodiversità marina mediterranea e alla museologia scientifica. É stata Direttrice del Museo di Zoologia “P. Doderlein” dell’Ateneo palermitano, è membro del National Biodiversity Future Center (NBFC), coordina progetti e iniziative di divulgazione scientifica. È stata membro del Consiglio Direttivo dell’Unione Zoologica Italiana; ad oggi ne è membro della Commissione Fauna e Ambiente.