
Il riciclo delle plastiche in Italia è stretto nella morsa tra caro energia e concorrenza estera

Ad agosto, a Ginevra sotto l’egida dell’Onu, riprenderanno i lunghi colloqui internazionali per arrivare a definire un Trattato globale contro l’inquinamento da plastica. Per quanto riguarda in particolare la gestione dei rifiuti plastici d’imballaggio l’Italia è migliorata molto negli ultimi anni, ma resta ancora molto da fare su questo fronte.
In base ai dati forniti dal Consorzio nazionale per la raccolta, il riciclo e il recupero degli imballaggi in plastica (Corepla) nel suo ultimo Bilancio di sostenibilità (anno 2024 su dati 2023), gli imballaggi di pertinenza immessi al consumo sono pari a 1.872.672 t, di cui 1.041.971 t avviate a riciclo (55,6%), 513.329 t a recupero energetico (27,4%) e 1.818 t (0,1%) a smaltimento in discarica. Il tutto in un contesto di forte difficoltà per i riciclatori europei, come evidenziato nell’autunno scorso anche dalla Corte dei Conti Ue.
Come migliorare? Ne abbiamo parlato a margine della kermesse Blu Livorno con Alessia Scappini, amministratrice delegata di Revet, la partecipata pubblica (con Alia Multiutility come socio di maggioranza) con base a Pontedera che rappresenta l’hub del riciclo più importante dell’Italia centro meridionale: serve circa 200 Comuni e oltre l’80% della popolazione toscana, e già oggi è in grado di portare a nuova vita la frazione delle plastiche più difficile da riciclare meccanicamente, ovvero da quegli imballaggi misti e flessibili, spesso compostiti, chiamati plasmix (in altre parole, il 70% circa degli imballaggi plastici di cui si compone la raccolta differenziata toscana).
Intervista
L’ultima analisi dei riciclatori plastici europei riuniti in Plastic recyclers Europe mostra che nel biennio 2022-23 i nuovi investimenti nel settore continentale sono in fase di stagnazione, frenati da costi energetici, bassi incrementi nella raccolta differenziata, concorrenza di polimeri vergini o riciclati ma importati a basso costo. Revet come sta affrontando questa congiuntura?
«È un rapporto molto attuale, che in Italia verrà presentato la prossima settimana nell’ambito della fiera Greenplast di Milano: Revet e più in generale l’Italia si trovano a vivere pienamente questa congiuntura, coi due elementi principali rappresentati dell’energia e dall’importazione di materiali plastici dall’estero.
Quello dei costi energetici in particolare è un problema che riguarda tutta Europa, ma soprattutto l’Italia. Dopo un calo dei prezzi che ci ha accompagnati fino alla fine dell’estate 2024, negli ultimi mesi i costi dell’energia sono tornati a salire del 30-40%, avvicinandoci a quelli del 2021-22, e questo impatta fortemente sui costi di produzione dei materiali riciclati. L’altro tema riguarda i materiali plastici importati da fuori Europa, spesso privi di tracciabilità e realizzati senza criteri di sostenibilità: per questo arrivano sul mercato a un costo inferiore rispetto a quanto si riesce a produrre all’interno dell’Unione. È un contesto molto complesso».
Revet come sta cercando di contenere i costi energetici?
«In questi anni Revet ha lavorato per autoprodurre energia, coprendo il nostro impianto con pannelli fotovoltaici. Al momento produciamo circa 5 milioni di kWh all’anno, con una potenza installata di 3,2 MW, che ci permette di coprire circa il 25% del nostro fabbisogno attuale. Ma stiamo implementando le nostre attività, quindi i consumi aumenteranno. Per questo stiamo portando avanti progetti per aggiungere altri 3 MW di fotovoltaico. In più, siccome i nostri materiali hanno una bassissima impronta carbonica, per noi è importante che anche l’energia acquistata dalla rete sia verde. Per questo utilizziamo approvvigionamenti con garanzia d’origine, ma anche su questo fronte non è facile, dato che in Italia non c’è ancora uno standard elevato nel mix elettrico (nel 2024 le rinnovabili hanno coperto solo il 41,2% della domanda elettrica, ndr)».
Quali sono invece le leve a disposizione di Revet per far fronte alla concorrenza dall’estero?
«L’obiettivo è dare valore ambientale al materiale che produciamo. I nostri polimeri devono essere qualitativamente e tecnologicamente avanzati, ma anche accompagnati da un bilancio ambientale che dimostri l’impronta carbonica molto bassa del processo, dalla raccolta alla produzione. Questo consente all’utilizzatore finale di disporre di una materia prima seconda con basse emissioni di CO₂, e quindi di ottenere già in input un risparmio evidente di gas climalteranti. Questo profilo ambientale oggi ci consente di andare sul mercato con un elemento di attrattività importante, soprattutto per chi ha obiettivi di sostenibilità o è soggetto a obblighi come l’Emission trading system. Così possono approvvigionarsi con materiali sostenibili».
Qual è l’impronta carbonica dei vostri materiali riciclati?
«Le plastiche riciclate da Revet comportano emissioni di CO2 ridotte del 75% rispetto a quelle legate alla produzione di plastica vergine, mentre a confronto con altri polimeri riciclati siamo attorno a -50%, grazie al modello integrato presente in Toscana per la raccolta e il riciclo di questi materiali».
Più in generale, a livello nazionale cosa servirebbe per sostenere la crescita dell’economia circolare lungo la filiera delle plastiche?
«Servirebbe più coraggio da parte del legislatore, ponendo fine a un approccio normativo a macchia di leopardo. Il nuovo regolamento europeo sugli imballaggi ha dato una spinta importante, introducendo il principio della riciclabilità, dato che non tutti gli imballaggi sono uguali, come sanno bene gli operatori che devono riciclarli. Ma serve di più. Introdurre contenuti minimi obbligatori di riciclato nei manufatti plastici – anche piccole percentuali – darebbe forza e stabilità al sistema. Al momento, misure simili esistono solo per alcune filiere: ad esempio, nelle bottiglie in Pet o per il polistirolo in edilizia.
Inoltre, in un contesto dove diventa sempre più centrale la misurazione delle performance ambientali, riconoscere a questi materiali un valore in termini di crediti di carbonio sarebbe un passo decisivo. Li renderebbe tracciabili dal punto di vista normativo e appetibili per un mercato che saprebbe valorizzare la qualità ambientale dei materiali, senza bisogno di sussidi pubblici. Sono due misure concrete e realizzabili, che aiuterebbero davvero a far progredire l’economia circolare e la transizione ecologica».
