Le promesse mancate del litio in Bolivia, mentre il Paese si prepara al voto
Il 17 agosto si aprono le urne in Bolivia e i sondaggi prevedono una vittoria facile dell’opposizione di destra, favorita dal difficile contesto economico e dalla guerra lacerante a sinistra tra l’ex presidente Evo Morales e il suo ex delfino, l’attuale presidente Luis Arce del Movimiento al socialismo (Mas), partito al potere quasi ininterrottamente dal 2006.
La Bolivia è un paese estrattivista che dipende economicamente da minerali (30,6% delle esportazioni) e gas (28,5%) (Cepal). Tuttavia, da anni il Mas insiste sul superamento del mero sfruttamento delle materie prime a favore dell’industrializzazione e in particolare della produzione di batterie al litio e auto elettriche, il tutto con forte centralità dello Stato che ha nazionalizzato il litio nel 2008.
Secondo l'US Geological Survey, la Bolivia ha le maggiori risorse di litio al mondo insieme all’Argentina ma la sua produzione è marginale. Ne parliamo con Manuel Olivera Andrade, economista boliviano che si occupa da anni del triangolo del litio tra Argentina, Bolivia e Cile.
Intervista
Perché il volume di estrazione di litio è così basso in Bolivia?
«Ci sono state tre grandi strategie messe in atto negli ultimi 17 anni. La prima è la strategia convenzionale di piscine di evaporazione in cui è stato investito 1 miliardo di dollari ma con risultati molto limitati: 2.000 tonnellate di litio prodotte all’anno, mentre paesi vicini come Cile e Argentina superano le 180.000. La seconda strategia è quella dell’estrazione diretta assieme a due imprese russe e cinesi, i quali contratti devono essere ancora approvati dall’Assemblea legislativa. Un’ultima strategia è consistita in un tentativo di joint venture con un’azienda tedesca per produrre idrossido di litio utilizzando la salamoia residua dello sfruttamento tramite le piscine tradizionali, progetto abbandonato nel 2019 a causa dell’opposizione sociale.
La maggior parte degli studi concordano su alcuni colli di bottiglia, in primo luogo tecnologici e scientifici. Il progetto statale si è concentrato principalmente sul metodo delle piscine di evaporazione, applicato nel deserto di sale o salar di Atacama in Cile. Tuttavia, le condizioni biofisiche del salar boliviano di Uyuni sono molto diverse, con alti livelli di magnesio e zolfo e un regime di precipitazioni che ostacola l’evaporazione.
In secondo luogo, la gestione burocratica dell’impresa pubblica di estrazione di litio [Yacimientos de Litio Bolivianos, nda] è molto lenta. Infine, va segnalata l’alta conflittualità tra gli attori che ruotano attorno al progetto pubblico. Il disegno istituzionale è molto centralista e confligge con i livelli subnazionali, che sono sotto pressioni da parte dei gruppi sociali che reclamano una parte dei benefici economici.
Il problema è che il progetto boliviano è guidato quasi esclusivamente da un ufficio pubblico, isolato dal resto degli attori, senza creare un ecosistema di conoscenza e innovazione con la società nel suo congiunto e risultando perciò poco adattivo».
Oltre al contesto biofisico più favorevole, quali altre ragioni spiegano i maggiori livelli di produzione in Argentina e Cile?
«In Argentina c’è un sistema molto aperto al capitale privato e pochissimo controllo statale. Ci sono 60 progetti attivi di esplorazione e sfruttamento del litio, di cui 6 già in fase di produzione.
In Cile, invece, il litio è considerato una risorsa strategica e dopo 40 anni di esperienza di lavoro c’è una conoscenza scientifica e tecnica consolidata e una rete di università e team tecnici internazionali lavorando nel salar di Atacama. La strategia cilena è mista: da un lato contratti con imprese transnazionali e ora nuove società miste, dall’altro rafforza la presenza di imprese pubbliche e protegge un terzo dei salares. È una strategia decisamente più seria rispetto alla Bolivia dove c’è scarsa attenzione alla conservazione, un ecosistema di innovazione e istituzionalità debole e meno esperienza».
Esiste in Bolivia un dibattito sugli impatti ambientali e sociali dell’estrazione di litio?
«Dieci anni fa non se ne parlava quasi per nulla. Oggi la discussione è ancora dominata da aspetti economici e geopolitici ma si fanno strada preoccupazioni relative all’uso dell’acqua e all'impatto ambientale sui salares, alla partecipazione sociale e alla consultazione delle popolazioni indigene. Alcune organizzazioni sociali, indigene, Ong, fondazioni e parte dell'accademia hanno manifestato apertamente preoccupazione e in alcuni casi hanno organizzato proteste e promosso ricorsi giuridici contro i progetti nel Salar di Uyuni».
Cosa ti aspetti nel caso di un cambio di governo dopo le elezioni di agosto?
«C’è un consenso implicito tra i candidati sul continuare il progetto e ottimizzare la produzione, con un’amministrazione più rigorosa, magari con più apertura al capitale straniero ma mantenendo il controllo pubblico sui processi di produzione e commercializzazione e sulla fiscalità. Manca però una vera idea di "reingegneria" del progetto. Tutti parlano del litio come “risorsa del futuro” ma senza una visione integrata dell'altopiano Sud che consideri anche turismo, agricoltura, acqua e aree protette.
Io credo che nessun Paese latinoamericano possa sviluppare da solo una filiera completa del litio, per cui serve un approccio cooperativo tra Bolivia, Argentina, Cile e Messico. Un’altra questione strategica e sostanziale è di investire in conoscenza, innovazione, scienza, tecnologia e capitale umano, con un governo forte e decisioni di pianificazione rigorose».