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Il paesaggio della paura: serve più ricerca per capire davvero l’impatto dei lupi sulle popolazioni degli ungulati

Il non-detto riguarda il dubbio che la torta sia troppo piccola per soddisfare gli appetiti di predatori e cacciatori
 |  Natura e biodiversità
Predazione di lupo su cerva, foto Mauro Mura - Parco Naturale Adamello Brenta

Uno dei punti di maggiore interesse nel rapporto tra i cacciatori e il lupo è l’impatto – reale o presunto – di quest’ultimo sugli ungulati: non a caso, in alcuni ambienti venatori si assiste con la preoccupazione al ritorno del predatore, che è visto come la possibile causa della diminuzione, o addirittura della scomparsa, di alcune specie preda.

Proviamo a elencare gli aspetti principali della questione, nel tentativo di mettere ordine rispetto a ciò che sappiamo essere vero, a ciò che sappiamo essere falso e a ciò che non sappiamo ancora. Il punto di partenza per cercare di fare chiarezza sull’argomento è che la questione è tutt’altro che semplice e chi vende certezze… vende fumo. O aneddoti. La questione non è semplice perché, per dirla con le parole di Enrico Ferraro, tecnico faunistico dell’Associazione Cacciatori Trentini, “da un lato vi sono pochi lavori che valutano in maniera specifica la dinamica preda-predatore, dall’altro occorre ricordare come la dinamica delle specie [preda] sia influenzata da molte variabili, e la predazione sia solo una di queste”.

La complessità parte, se vogliamo darle un punto di inizio, dalla dieta del lupo, che è variabile in termini spaziali, temporali e cronologici: sempre secondo Ferraro “si può notare come vi sia un’alta variabilità [nella dieta del lupo] non solo fra le varie zone ma anche fra diversi branchi presenti in aree geograficamente simili e come vi sia anche un’alta variabilità temporale, da un anno all’altro, anche all’interno del medesimo branco”. Modifiche che spaziano da una dieta basata quasi esclusivamente su ungulati selvatici, in particolare il cinghiale – particolarmente significativi, a questo proposito, i dati che arrivano dal massiccio di Concors e del Saint Victoire, in Provenza, dove il cinghiale costituisce l’89,2% di tutto il regime alimentare, a fronte di zero prede domestiche – a comportamenti trofici che includono invece in misura mutevole ma consistente alimenti di origine antropica come bestiame, carcasse e rifiuti, e che potrebbero essere influenzate da differenti variabili, tra le quali anche l’acquisizione da parte delle specie preda di comportamenti ed abitudini antipredatori, tra cui l’aumento del tempo dedicato alla vigilanza, la maggiore distanza di fuga e le dimensioni dei gruppi.

In questa direzione, un contributo interessante deriva dalle indagini messe in atto nell’ambito del progetto LIFE WolfAlps per verificare l’effetto del cosiddetto “landscape of fear”, o paesaggio della paura, ossia quella complessa relazione tra predatori e prede che influenza l’ecosistema attraverso le cascate trofiche e che non si limita all’impatto diretto dei predatori sulle prede con il ferimento o la morte di queste ultime, ma ha conseguenze a livello di utilizzo dello spazio, perché il rischio di essere predati genera paura e induce la preda a modificare il proprio comportamento. Secondo i diversi studi condotti nelle aree alpine di progetto di Italia, Francia e Slovenia, ad esempio, i caprioli adattano il loro uso dell’habitat in base al contesto di rischio generato dai lupi e dalla caccia umana, e al livello di urbanizzazione di ciascuna area, con un forte impatto delle infrastrutture antropiche. I caprioli sembrano addirittura utilizzare gli edifici come “scudo” non solo contro i predatori selvatici, ma anche contro i cacciatori.

Ecco dunque il punto di partenza: come principale predatore dell’emisfero nord, il lupo è in grado di limitare o regolare le popolazioni di ungulati selvatici ma il suo impatto è controverso, in quanto non dipende solo dal numero di capi uccisi, ma anche da molti altri fattori fra cui la struttura per età delle prede, dai fenomeni di regolazione densità dipendenti o altri fattori quali la mortalità compensatoria dovuta alla predazione [Mech e Boitani]. In altre parole, è molto difficile riferire la dinamica di alcuni ungulati esclusivamente all’azione del lupo, in quanto entrano in gioco una serie di altri fattori, spesso più impattanti della predazione. L’esempio del Piemonte, dove il lupo è ricomparso a partire da metà degli anni Novanta, può essere di aiuto: i piani venatori delle valli cuneesi e torinesi denotano come complessivamente non si sia registrato un calo nel numero dei capi prelevati (ma addirittura, in alcuni casi, degli incrementi). Con una eccezione del tutto particolare: il muflone che, essendo specie alloctona che non si è coevoluta con il lupo, ha subito delle diminuzioni importanti e anche delle estinzioni a livello locale.

Se non si tiene conto di questo scenario composito e diversificato si rischia una percezione distorta delle trasformazioni territoriali e delle dinamiche ecosistemiche in atto. Nel 2023, i 35 distretti venatori del Dipartimento della Drome, in Francia, sulla base di dati molto puntuali, avevano lanciato un accorato allarme sul drastico calo delle popolazioni di ungulati a livello regionale. Calo attribuito in modo diretto alla predazione del lupo, in quel momento presente sul 90% del territorio dipartimentale con 21 branchi. L’allarme era stato sintetizzato in un video che aveva fatto molto discutere, dentro e fuori il mondo venatorio. In sintesi, si lamentava l’eradicamento del muflone, passato da 322 permessi di abbattimento nel 1998 a 0 nel 2015, un calo dei prelievi sul capriolo nell’ordine del 30-40% dove il lupo è stabilmente insediato, un calo del 39% per il camoscio, un calo tra il 20 e il 30% del cervo dove il lupo è presente da almeno 10 anni, una perdita del 30% dei prelievi di cinghiale, crollati in solo anno da 12.000 a 8.500 e, da ultimo, la fine di qualsiasi piano di abbattimento nel 2030. La denuncia confluiva poi in una mozione che chiedeva la rimozione immediata, già nel corso della stagione 2023, di 100 lupi, individuando in 50 lupi la massima capacità di carico a livello dipartimentale. Questo scenario a tinte fosche aveva iniziato però a scricchiolare già al termine della stagione di caccia 2023-2024, con un bilancio finale di 11.073 cinghiali abbattuti contro i 9.788 della stagione precedente, e questo a fronte di una forchetta compresa tra i 10.000 e gli 11.000 considerata come soglia ideale di prelievo a livello regionale.

A ridisegnare l’intero quadro d’allarme è arrivato poi il nuovo Piano di prelievo varato il 10 aprile 2024 dalla Commission Départementale de la Chasse et de la Faune Sauvage – CDCFS della Drome, valido per il triennio 2024-2027 e che prevede: aumento del prelievo del cervo, che passa a 4.450 capi contro i 3.700 dell’anno precedente; conferma sostanziale dei piani di abbattimento per il capriolo che si attesta a 15.055 capi contro i 16.430 del periodo 2021-2023; e infine abbassamento della quota per il camoscio che passa da 1.400 a 1.100. In questo caso però la Commissione sposta il focus dal lupo ai cambiamenti climatici e all’invasione del turismo. Da ultimo, si ipotizza la possibilità di prolungare di tre mesi la stagione venatoria per fare fronte all’esplosione del cinghiale e contenere i danni alle attività agricole. Unico dato confermato, rispetto all’allarme lanciato nel 2023, è l’azzeramento del muflone.

Una dinamica che, per quanto riguarda quest’ultimo, sembrerebbe tendenzialmente valida anche in Trentino grazie ai dati raccolti nell’ambito del programma di stewardship del progetto LIFE WolfAlps e che ha visto un accordo di collaborazione tra Associazione Cacciatori Trentini e MUSE. Lo studio riguardava la frequentazione dei siti di foraggiamento da parte degli ungulati e del lupo in Val di Fassa, dove vive la prima e più importante popolazione di muflone in Trentino, con immissioni iniziate nel 1971. La specie è stata infatti introdotta sulle Alpi italiane a partire dagli anni ’50-’60 a scopo venatorio. Grazie anche ai dati raccolti dal Servizio Faunistico Provinciale, si è potuta disegnare una parabola di declino nel Trentino orientale che ha visto una perdita del 77% degli effettivi in quattro anni, passando dai 720 individui del 2018 ai 349 del 2021 e ai 167 del 2022. A partire da quella data, però, la situazione pare essersi stabilizzata con dati relativi al triennio 2023-25 in cui le fluttuazioni sono attribuibili piuttosto a fattori climatici che alla predazione. Nel 2023 infatti la stima era di 207 individui, scesi a 165 nel 2024 e risaliti di nuovo 198 nel 2025.  Va da sé che il “convitato di pietra” di ogni ragionamento attorno a questo tema sia la percezione di una interazione asimmetrica tra competitors, con i cacciatori in posizione svantaggiata rispetto ai predatori naturali. Il non-detto riguarda il dubbio che la torta sia troppo piccola, per così dire, per soddisfare gli appetiti di entrambi. A questo proposito vale la pena di segnalare un interessante contributo pubblicato recentemente del teriologo Klaus Hacklaender, direttore dell’Istituto per la Biologia della Selvaggina e la Caccia del BOKU di Vienna, la prestigiosa Universitaet fuer Bodenkultur della capitale austriaca. “Sempre più spesso – scrive il docente austriaco in “Der Wolf im Visier. Konflikte und Loesungansaetze”, edito da Athesia nel 2022 – proprietari terrieri e forestali sperano che i lupi possano incidere positivamente per ridurre le densità elevate di cervo. Questo ci rimanda quindi alla domanda se i lupi possano effettivamente ridurre almeno l’incremento annuale di una popolazione di questo ungulato. A tal fine si può riflettere su quanta carne serve a un lupo al giorno e quanti cervi ciò può rappresentare. Un lupo ha bisogno fino a 3 chilogrammi di carne al giorno, che possiamo convertire in circa 35 cervi l’anno. Un branco formato di solito da 7 individui (coppia genitoriale e 5 giovani) ha bisogno di circa 21 chilogrammi di carne al giorno e quindi di circa 245 ungulati all’anno. Un branco di lupi vive grosso modo in un territorio di 250 chilometri quadrati. Sulle Alpi, secondo una stima tecnica prudenziale, ci sarebbe dunque spazio per una popolazione di 1.580 lupi. Questi avrebbero bisogno di circa 4.740 chilogrammi di carne al giorno, che possiamo convertire in circa 55.300 cervi l’anno. Ora, il cervo in Austria ha un incremento annuale del 35%. Solo in Austria si stima che la popolazione di cervo si attesti intorno ai 150.000 esemplari: il loro incremento annuale è di circa 52.500 individui. L’Austria potrebbe quindi fare fronte da sola al fabbisogno alimentare della massima densità teorica possibile di lupi di tutto l’arco alpino, e questo limitandosi al solo incremento annuale del cervo. Improbabile quindi che il lupo possa determinare un regresso delle popolazioni di cervo. In questo scenario estremamente semplificato non si tiene conto, inoltre, del fatto che il lupo non si nutre solo di carne di cervo, e dunque ipotizzare un qualche effetto della sua predazione su questa specie diventa ancora più improbabile”.

In definitiva, per tornare al quesito iniziale, occorre ammettere che una risposta univoca non è possibile e che, se mai, da questa “impossibilità” bisogna cogliere lo stimolo per ampliare e moltiplicare il campo della ricerca. La realtà è che sappiamo ancora troppo poco e che il ritorno dei grandi carnivori apre scenari nuovi all’insegna di interazioni complesse. Tutte da esplorare.

di Filippo Zibordi e Mauro Fattor. L'articolo è stato pubblicato col titolo “L’impatto del lupo sui servatici: quel che (non) si sa” ne I nuovi fogli dell'orso del Parco naturale Adamello Brenta

Redazione Greenreport

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