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Trilogia amazzonica, reportage di Mario Tozzi. Prima puntata

L’Amazzonia, il cuore selvaggio del Pianeta. Ma i battiti rallentano e lo stato di salute peggiora

 |  Natura e biodiversità

Manaus. Da dovunque arrivi, l’Amazzonia non finisce mai. In aereo ci vogliono almeno tre ore di volo per giungere a Manaus dalla costa brasiliana e in nave, per risalire tutto il Rio delle Amazzoni navigabile, ci vogliono giorni. In auto, per fortuna, ci si arriva solo dal Venezuela. Per ora. L’Amazzonia è immensa: oltre 7 mln di kmq che occupano il 60% del Brasile e il 40% dell’intero subcontinente sudamericano. Un’intricata e fittissima distesa di verde che si può e si deve apprezzare solo dalle acque dei suoi oltre mille fiumi: sul livello dell’acqua incombe una muraglia continua che parte dalle paludi rivierasche e arriva alle chiome dei palmeti da frutto, degli iroco e degli alberi più alti. Poi mi infilo in un igarapè, un fiume tributario minore che penetra nell’interno, dove bracci di fiume si insinuano fino alle terre ancora libere dei Tupi o degli Yanomami.

Gli abitanti umani della foresta sono soltanto loro, gli unici ancora in grado di vivere in simbiosi con il resto dei viventi, gli unici in grado di preservare risorse e ecosistemi, perché sanno di poter contare solo su quelli. Non posseggono praticamente nulla, se consideriamo i nostri standard “occidentali”: non accumulano, non commerciano e praticano una limitata agricoltura di sopravvivenza, limitata a radici e tuberi, in un collettivismo dell’economia che si regge da migliaia di anni. Hanno resistito a tutto: l’invasione coloniale, il capitalismo commerciale della gomma, quello industriale delle miniere e del petrolio, il genocidio continuamente tentato, gli assassinii, le deportazioni e ogni tipo di vessazione. Ma sono ancora qui, resistenti come pochi, autentici custodi di un patrimonio che è di tutti, ma che solo loro sembrano capire.

Mario Tozzi Amazzonia 2

​L’Amazzonia è un insieme immenso di ecosistemi ancora in gran parte sani, è un intreccio di acque e selva, di sedimenti e viventi non umani: dal giaguaro ai tapiri, dai pappagalli strepitosi ai tucani a oltre tremila specie di pesci. In nessun luogo al mondo si registra una ricchezza della vita più straordinaria di questa. E non è un posto senza sapiens, anzi: qui vivevano forse una decina di milioni di indios prima dell’arrivo dei portoghesi. Una vita tranquilla, tre o quattro ore di lavoro al giorno per la sussistenza e il resto del tempo a godere dei frutti della terra e della vita comunitaria. Per questo li abbiamo considerati inferiori: si accontentavano ed erano felici, non osservavano la religione della proprietà, non conoscevano il denaro e non avevano bisogno di molto per sentirsi parte integrante di un sistema naturale che avrebbe garantito l’esistenza per sempre. Nessuno muore di fame nella foresta pluviale, contrariamente a quanto accade nelle steppe o nelle zone aride.

​L’Amazzonia è il cuore selvaggio del pianeta Terra: finché continua a battere siamo garantiti. Ma i suoi battiti stanno rallentando e il suo stato di salute peggiora. La prima causa è la frammentazione: la foresta pluviale ha bisogno di restare intatta per continuare a svolgere i suoi ruoli, non deve essere intaccata, non deve essere toccata. Non può e non deve finire nei nostri parquet o nei mobili, trasformata in soja o in carne, perforata per cercare combustibili fossili e stuprata per minerali e terre rare. Invece la stiamo perdendo, a un ritmo forsennato di cui non ci si rende conto per via delle dimensioni apparentemente incommensurabili. 

L’Amazzonia è sterminata, però non infinita e la sua resilienza ha un limite, limite che noi stiamo valicando. Ogni anno perdiamo, nel solo Brasile, un territorio di foresta pluviale amazzonica di circa 5000-10.000 kmq che contribuisce alla perdita mondiale di foreste tropicali equivalente a un territorio grande come il Belgio o la Grecia. Tutto questo per alimentare un’economia che non comprende l’impossibilità di generare ancora capitale, se non garantisce l’integrità di quello naturale che ne è alla base. L’Amazzonia è vicina al suo tipping-point, punto di non ritorno, e noi sapiens rimaniamo a guardare come se non ci riguardasse.

Mario Tozzi Amazzonia 3

​Risalgo il Rio Negro su un battellino di metallo e mi addentro all’interno di un igapò: la foresta è allagata, nella canopea risuonano i richiami sonori di milioni di uccelli variopinti, mentre sotto lo scafo si agitano centinaia di pesci di ogni dimensione. Ogni tanto qualche serpente verdissimo scivola via veloce e libellule grosse come passeri agitano freneticamente le ali, il tutto in una varietà senza fine di piante. La diversità, questo è ciò che ci regala la foresta pluviale, dove ogni standardizzazione è impossibile, dove non esistono gli accumuli, dove l’unico reddito è godere della natura: l’Amazzonia è un manifesto contro il modello di sviluppo capitalista, ti fa capire che le risorse sono imponenti, ma non infinite e che dovresti tu adattarti a essa, non piegarla a scopi privi di senso ecologico e, alla fine, lucrosi per qualcuno, ma dannosi per tutti gli altri.

​Gui, un capovillaggio Cipà, mi insegna come si vive riconoscendo le piante e curandosi con quelle: mi spalma sul petto e sotto il naso una corteccia che emana effluvi terapeutici per le malattie respiratorie. Riconosco quel profumo: me lo spalmava mia madre sul petto da piccolo, era una crema bianca translucida che si comprava in farmacia, non lo sapevo che nasceva qui, come mille altre medicine, comprese quelle costosissime per curare il cancro. La foresta amazzonica è la farmacia del mondo. 

Poi si arrampica su una palma da frutto semplicemente intrecciando una specie di kenzia e incastrandoci i piedi per arrivare a una trentina di metri e lasciare cadere la frutta. Mi racconta che la sua tribù non intacca mai fino in fondo le risorse, preleva solo quello di cui ha bisogno. E che di vivere in città non gli interessa, gli basterebbe che li lasciassimo in pace. Incrementare la demarcazione dei loro territori, questo invece gli interessa, così potranno rivendicare legalmente quel diritto che gli speculatori stanno intaccando giorno dopo giorno. Per questo vogliono appropriarsi delle loro terre prima che ne vengano definiti i confini, per questo odiano il Presidente Lula che ha ordinato nuove demarcazioni. La foresta non vorrebbe confini, ma oggi è diventato necessario delimitare i territori intoccabili, pena la perdita di tutto. Una perdita che sarebbe per sempre.

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Mario Tozzi

Mario Tozzi è Primo Ricercatore presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (Istituto di Geologia Ambientale e Geoingegneria), si è occupato dell’evoluzione geologica del Mediterraneo centro-orientale, studiando le deformazioni delle rocce. Oggi si occupa principalmente di divulgazione scientifica e del trasferimento dei risultati della ricerca del CNR, coinvolgendo i ricercatori degli istituti di molte discipline, fino a quelle umanistiche. Dal 2006 al 2011 è stato Presidente dell’Ente Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano. Dal 2013 è Presidente del Parco dell’Appia Antica. È membro del Consiglio Direttivo del TCI, del Consiglio Scientifico del WWF e del Festival della Scienza di Genova. È Cavaliere della Repubblica.